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Wim Wenders e la colonna sonora di “Perfect Days”, candidato agli Oscar come miglior film internazionale

Un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso”.


Quante volte è capitato di pensare, con un paio di cuffie in testa, un vinile o CD in riproduzione o, per i più nostalgici, musicassette alla mano, “questa canzone sarebbe perfetta come colonna sonora della mia vita”?


Wim Wenders, con il suo “Perfect Days”, uscito in Italia lo scorso 4 gennaio su distribuzione Lucky Red, mette in scena proprio questo: il ritratto di uomo comune, Hirayama, nella sua quotidianità divisa tra lavoro, letture e le amatissime musicassette anni ‘60 e ‘70. 



Non è la prima volta che il regista tedesco fa della musica una colonna portante dei propri film: “Paris, Texas” (1984) vede la colonna sonora firmata da Ry Cooder, membro dei “Buena Vista Social Club”, omonimo e celebre locale de L’Avana su cui lo stesso Wenders, nel 1999, ha diretto poi un lungometraggio; ne “Il cielo sopra Berlino” (1987) è invece nota, tra le varie, la performance live interna al film di Nick Cave & The Bad Seeds, o ancora in “Lisbon Story” (1994) mette in scena il fado, genere di musica popolare portoghese, attraverso dodici brani “regalatogli” dai Madredeus.


Perfect Days”, nello specifico, è stato invece pre-girato con la musica di sottofondo, perchè già nel copione erano presenti i brani, diversamente dalla procedura standard che vede l'introduzione della musica solo in fase di post-produzione. Lo stacco tra scena e musica è netto, un volontario atto da parte del protagonista, una colonna sonora reale.


In generale, il lungometraggio ci accompagna nella visione, giorno per giorno, della vita di Hirayama, interpretato da un magistrale Kôji Yakusho, uomo sulla sessantina, impiegato per Tokyo Public Toilet nella pulizia dei bagni pubblici della città, vere e proprie opere architettoniche che rientrano nel progetto di riqualificazione partito nel 2020 e che ha permesso il restyling di 17 toilette nel quartiere di Shibuya, uno dei più caratteristici della capitale (sul quale, tra l'altro, Wenders avrebbe dovuto fare un docufilm, salvo poi cambiare idea e scegliere la forma narrativa che è poi arrivata a noi).


Quotidianità, lavoro e solitudine si intrecciano nella pellicola: nel modesto quanto “tipico” appartamento d’ogni giorno, Hirayama si alza, si lava, si aggiusta i baffi, innaffia con cura meticolosa e, quasi mi viene da dire, affetto, le proprie piante. Ascoltiamo musica solo quando la ascolta anche lui, una musicassetta diversa al giorno, da riprodurre nel suo van andando a lavoro, una vecchia Olympus analogica con cui, all’ora di pranzo, immortalare quell’affascinante gioco di luci e ombre che si crea tra foglie e rami (komorebi, nella filosofia orientale), infine un’umile ma calorosa locanda all’interno della metropolitana, a sera.

Hirayama non ci dice quasi nulla, eppure fa capire tutto. 



Wenders sceglie di portare sullo schermo un uomo con la sua colonna sonora di tutti i giorni: qualche pagina di un libro prima di addormentarsi, immagini di sogni confusi che si intrecciano tra presente e passato e le musicassette che colleziona con orgoglio nel curato van, che ci bloccano nella sua concezione di tempo, lontano dallo streaming, dal digitale e dagli schermi da cui veniamo assorbiti ogni giorno, quasi dimenticando che il film, in ogni caso, è ambientato ai nostri giorni.


Nel corso della visione abbiamo il piacere di ascoltare:


The House of The Rising Sun” (1964), brano che fu straordinariamente prima eseguito live dagli Animals con Chuck Berry e solo successivamente registrata in studio, per di più durante un live tour. “Pale Blue Eyes” (1969), siamo nel van con Hirayama, che sceglie un brano scritto da Lou Reed nel primo album dei Velvet Underground senza John Cage. “(Sittin’on) The Dock of The Bays” (1967), brano di Otis Redding di cui lui, purtroppo, non riuscì mai a godere il successo, morendo in un incidente aereo tre giorni dopo l’incisione del pezzo in studio. Con “Redondo Beach” (1975) un trio del tutto singolare compare sullo schermo, e anche noi sorridiamo sotto i baffi con Hirayama: il brano di Patti Smith affascina la ragazza di Takisha, il giovane assistente, che, contro ogni aspettativa, prenderà la musicassetta al nostro protagonista.


Ora, per un momento, immaginate di avere del tempo solo per voi, liberi e finalmente a casa, le preoccupazioni per un attimo sembrano sparire, silenziose. La quiete che ci avvolge, che ci fa sentire in pace con noi stessi almeno per un istante, è ciò che lascia, come aspirazione-sensazione, e forse un pizzico di amarezza, l’intero film. 


Perfect Day”, brano che Lou Reed scrisse nel 1972, è colonna sonora di uno di quei momenti per Hirayama; lo spettatore si immerge nel suo personale komorebi, insegnandoci l’importanza di rallentare. Il raggio di luce tra le foglie è un’immagine che induce alla gratitudine di uno spettacolo tra i più comuni della quotidianità, e al tempo stesso ci radica coi piedi per terra, ad un presente che forse, troppo spesso, ci schiaccia, allontanandoci dal trovare un equilibrio.

Un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso” è una delle poche frasi che ascoltiamo di Hirayama, ed è la rappresentazione perfetta anche di questo momento. 



Si torna a lavoro, e Wenders fa fare la piacevole scoperta (nel mio caso) di Sachiko Kanenobu con “Aoi Sakana” (1972), altra cassetta messa nello stereo del furgoncino per cominciare la giornata. Può sembrare ripetitivo, leggerlo, immaginarlo, ma la calma con cui Hirayama si prende cura della propria routine, come può essere la scelta del brano per iniziare la giornata, crea una sorta di intimità emotiva tra lo spettatore e il protagonista; così come accade anche con “Sunny Afternoon” (1966) brano dei Kinks e scritto da Ray Davies dopo una pausa causata da un periodo di difficoltà, o con “(Walking Thru the) Sleepy City” (1975) dei The Rolling Stones, che incalza ritmo e buon umore nonostante ambiente o circostanze, la musica funge da ponte tra noi e Hirayama, creando comprensione ed empatia con quella routine, un po’ come se al volante ci fossimo anche noi. Con “Brown Eyed Girl” (1967), poi, ammetto di aver canticchiato anch’io sotto sotto, sorridendo a chi mi stava accanto, ma questa è un’altra storia; curiosamente, invece, è uno dei brani meno amati dal suo stesso autore, Van Morrison.


Il film si chiude con una delle scene a mio parere più forti della pellicola: “Feeling Good” (1965) di Nina Simone ci accompagna per un’ultima volta al volante fianco di Hirayama, in un crescendo emotivo del protagonista, quanto oserei dire nostro, che racchiude in sé tutta la potenza e l’eleganza del lungometraggio.

It's a new dawn, it's a new day, it's a new life for me.

Le fragilità che l’uomo si porta addosso, e che lo spettatore nel tempo ha fatto sue comprendendole in qualche modo in quei silenzi, si infrangono sul crescendo del brano come una cascata. Hirayama guida all'alba di un nuovo giorno apprezzando quella solita brezza che respira ogni giorno, e tra pensieri del futuro e del passato piange e sorride alla vita che ha vissuto e che verrà, diviso tra quella gratitudine che sente di dover provare e le sofferenze che che ha comunque attraversato, come ogni uomo.

Struggente prova attoriale di Kôji Yakusho, vincitore non a caso del premio come migliore attore a Cannes, che riesce a trasmettere perfettamente il film ed il pensiero del regista tedesco.


La concezione di Hirayama sul vivere ognuno un mondo diverso dagli altri, che al tempo stesso vivono assieme come più mondi in uno solo, esplode assieme all'elogio, poetico, dell'imparare ad accettare ed essere grati per quel gioco di luci e ombre che offre lo scorrere del tempo, nella sua interezza e lentezza. La potenza della colonna sonora scelta, nell'accuratezza con cui il personaggio ha un suo personale mondo la cui musica viene resa una delle colonne portanti, si traduce come un tributo alla musica stessa; ad hoc la ripresa di uno dei primi strumenti che la tecnologia ha fornito, a pensarci, proprio per riuscire ad avere ognuno una propria colonna sonora, quasi ovunque: la musicassetta. Come dichiarato da Wenders stesso,

"abbiamo raccontato la nostra storia come se fosse una cassetta. La musica va di pari passo con il film, perchè la musica stessa racconta qualcosa; è parte stessa della narrazione del film".

Film consigliatissimo, per i più fortunati ancora in programmazione qui.

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