Torna oggi trionfante in scena dopo più di 10 anni il Moltheni che avevamo imparato ad apprezzare per il suo enorme contributo al movimento alternativo italiano, trasversale per generi e influenze, sempre incisivo per stile narrativo e sensibilità artistica.
Il suo nuovo lavoro “Senza eredità” uscito oggi per La Tempesta Dischi dopo circa un anno di gestazione, dovrebbe idealmente raccogliere tracce e brani che mai si erano incastrati nei precedenti album o demo scritte a partire dal 1998. Ciò che emerge da questo ultimo capitolo di storia è la volontà di lasciare “una eredità senza eredi”, usando le parole dell’autore.
Ciò che invece è risaltato dopo numerosi ascolti per me è l’impressione di non trovarsi di fronte ad un album, bensì ad un romanzo, un Bildungsroman per la precisione. Traccia dopo traccia mi sembrava di scorgere tra le righe un unico comun denominatore a fare da collante: la stessa estemporanea dedizione per quella cosa che chiamiamo vita vista con gli occhi di Zeno Cosini. L’organicità del lavoro, magari non precisamente ricercata nelle premesse, si delinea invece in modo deciso e indiscreto durante lo svolgersi dell’album.
"Guardavamo felici in cima a un monte il panorama con le vipere mentre crollava il ponte."
Partiamo da principio, da “La mia libertà”. Un brano chiave per comprendere tutti i seguenti. “Eravamo tutti un po’ convinti che la vita andasse cercata, poi un giorno arrivò una certa bugia e decapitò la mia poesia già condannata”: questo brano racconta del terribile momento di agnizione nel corso della vita in cui il suo senso si dispiega per quello che non è. Moltheni gioca sul dualismo vita – bugia, come se l’una non esistesse senza l’altra. Ciò che nel resto del brano si dispiega è una realtà diversa, in cui le due entità sono indipendenti e viaggiano anzi su binari paralleli. Che sia o meno la libertà la chiave che mette in relazione vita e bugie, il finale suggerisce che sia forse comunque lei a definire l’essenza di una vita mentre il dito medio che non vede l’ora di agitare nella sua direzione ci svela come abbia preso l’autore questa consapevolezza.
“Ieri”, primo ed unico singolo rilasciato prima di oggi, lascia invece poco spazio a dubbi interpretativi. “La mia grande città non è veleno ma limita le cose che potrebbero fare la differenza per stare in piedi”: un canovaccio narrativo lineare racconta di una serie di colpe della modernità e di traguardi mancati per l’autore. La dinamica del consumismo lascia dietro molti, a volte sciocchi, a volte semplicemente presi da altri impegni. Moltheni si inserisce proprio in quest’ultima categoria, un mancato consumatore che ha cavalcoto invece altre onde.
In “Estate 1983” si inizia a intravedere quella che secondo me è la chiave di lettura dell’album: “ignorare il tempo”. Un lungo elenco di esperienze passate cui guarda con nostalgia compongono l’essenza di un’estate dimenticata in cui si cela il segreto della felicità a distanza di anni. Ignorare il tempo come metafora del lasciare fuori il superfluo, “l’acqua torbida”, dalla propria vita. Consci che l’essenziale non sia così invisibile, bensì ignorato, dagli occhi.
“Se puoi, ardi per me” muove dalla neo-consapevolezza acquisita e dall’intento di farne un mantra di vita: “sceglilo tu e proclama se è menzogna o verità”, non importa più se qualcosa sul manuale risulti o meno verità o menzogna, il relativismo impone una valutazione attenta di ogni singola esperienza prima di sentenziarne la natura. Un messaggio incorniciato in una lettera sincera e spontanea verso qualcuno che di vita sembra ne faccia ardere parecchia intorno a se. A questa persona l’invito a non farsi mangiare dagli ingordi di cui si circonda.
“Il quinto malumore” sembra essere un’altra lettera indirizzata forse alla stessa persona del brano precedente: una resa dei conti su questioni sospese, non scevra da giudizi taglienti verso il destinatario: “non hai, non vuoi più’ chi ti ascolta ma è ciò che meriti perché perché fai tutto in fretta”. Cibi insani forse metafora di cattive abitudini.
“La tua pelle come latte di perle dentro a un cielo con le stelle ed io povero come un dio a cui non restano nemmeno quelle”. Nelle dediche d’amore Moltheni conta pochi rivali nella scena. Certe immagini come questa di “Ester” lasciano non solo il fiato ma anche la mente sospesa a mezz’aria cercando di afferrare le miriadi di implicazioni che una metafora si porta con se. L’immagine di un dio a cui non restano nemmeno le stelle da guardare è semplicemente magnifica.
“Le nere geometrie paterne” riportano l’attenzione a certi aspetti difficili da affrontare nella vita. Ostacoli in partenza o durante il percorso che rischiano di scoraggiarci e lasciarci a terra. Suggestivo è l’inizio del pezzo: “Cominciò in un silenzio tombale il ricamo della vita mia”, che quasi riecheggia e parodizza le genesi biblica del vangelo di Giovanni: “in principio era il verbo”, qui nemmeno quello, solo un silenzio tombale. Il punto di vista di quella che non fu più “una bambina normale” si concentra intorno ad un amore burrascoso, incomprensibile ad occhio esterno. Un amore che finì in un inverno glaciale, con la promessa di “cercare il mio cielo dietro a ogni nuvola”. Malgrado tutto, “potetti vivere”: ancora una volta, niente impedisce la vita se si guarda allo suo svolgimento dalla giusta prospettiva.
Tema di “Spavaldo” è la felicità, quella che “va in campeggio in tenda dentro ai centri commerciali”. Non tutti i mali vengono per nuocerla, come i treni persi, “quelli rotti che deraglieranno senza freni”. Concentrata in poche ermetiche righe passano veloci immagini molto diverse tra loro che potrebbero nascondere l’intenzione di spiegare quei primi versi così criptici ma così disillusi, di definire una felicità che spesso risulta artefatta e ricostruita alla buona secondo categorie innaturali e affatto realistiche.
La fine dell’album si fa sempre più ostica e oscura: “Sai mantenere un segreto?” si attorciglia sulle malsane abitudini dei working class heroes. Di chi non ha tempo, forze, energie, finito il suo turno di lavoro, per dedicare del tempo a se stesso. Un torto fatto a se stessi, annegato spesso in una fugace e usuale visita al solito bar che diventa teatro di una messinscena che si ripete giorno dopo giorno, vita dopo vita. Forse è proprio vero che “A working class hero is something to be”.
Ricordi distanti in continuità con il brano precedente si mischiano in “Il mio tempo”: “ogni ora lasciata è un diamante che brilla per terra, ogni libro che hai letto è una porta che hai aperto nell’universo”. A far da cornice i ricordi delle corse tra gli alberi, gli orgasmi, le discussioni, gli appuntamenti con il tempo, incarnati nella figura che l’accompagnava nelle corse. Capita che una persona ci ricordi un preciso periodo della nostra vita, fino a rappresentarne tutti i meriti ed i demeriti. Un’espediente sublime per raccontare i tempi e le persone andate.
“Tutte quelle cose che non ho fatto in tempo a dirti” chiude l’album e descrive “una follia che abitava abusiva in un appartamento nella mente mia”, forse riferendosi all’idea di amore che si era fatto con la persona con cui si auspica di parlare il venerdì seguente. Il ricordo di un amore talmente denso che tuttora sembra marmo nel letto in cui il narratore non riesce ad addormentarsi. È sempre molto difficile ammettere a se stessi di essersi sbagliati alla grande su qualcosa o qualcuno. Quando per questo errore ne deriva un cuore spezzato, l’esito è doppiamente doloroso. Un finale tragico e funesto, segno che forse tutte le nostre consapevolezze e convinzioni di vita nulla possono contro un incedere sfortunato di eventi e tempi.
A far da sfondo alle tracce ascoltiamo degli arrangiamenti musicali modesti e indiscreti, che esaltano brillantemente i momenti più alti e celebrano tristemente quelli più disillusi. A chi sostiene che i cantautori non siano anche poeti, consiglierei di leggere Moltheni prima di ascoltarlo. Un autore che dimostra come le due sfere artistiche abbiano una nutrita e affollata intersezione.
Moltheni con questo album ha compiuto l’ennesimo passo verso l’immortalità artistica, che speriamo comporti anche una quantità ugualmente eterna di sue nuove composizioni.
PS: tormentato da alcune delle questioni in sospeso, ho posto a Moltheni stesso, dopo aver scritto questa recensione, chiarimenti. Come una sorta di inserto delle soluzioni della settimana enigmistica, riporto qui le mie domande e le sue risposte per comprendere quanto combacino le nostre visioni del mondo (edell'album).
In “la mia libertà” affronti il dualismo vita – bugia come qualcosa che ha avuto un forte impatto sulla tua ispirazione artistica. Ho pensato che questa bugia fosse la libertà: è così?
La bugia in quanto tale mi ha sempre incuriosito, soprattutto nell'aspetto sociologico, che vede l'essere umano deviare il senso e il percorso delle cose. La libertà sarà sempre un eterna bugia, ma è pur vero che l'essere umano non potrà mai essere del tutto libero: se ciò accadesse davvero, finirebbe per estinguersi in mezza giornata. Il processo invece è solamente più lento, poco cambia.
In “Ieri” canti “lo sciocco ride e intanto il ricco compra cavalca l’onda per stare in piedi”: chi sono gli sciocchi che ridono dell’onda consumista secondo te?
Sono coloro che non si accorgono di nulla, anche delle più chiare ed evidenti sciocchezze che gli imbambolano la mente, attraverso la tv e la rete. Oggi puoi permetterti di fare qualunque cosa, troverai sempre qualche adepto che apprezzerà o minimizzerà sul tuo pessimo lavoro. Contrariamente tutti sono diventai esperti di tutto, quindi anche facendo le cose per bene, ognuno di noi è soggetto ad essere crocifisso.
“Ignorare il tempo”, inteso come vivere il momento, può essere la soluzione a tutti i problemi terreni?
Ai nostri problemi terreni non esistono soluzioni, figuriamoci se potrei proporli io in una canzone. Il tempo ogni tanto va ignorato, poichè viviamo solo ed esclusivamente in sua funzione. Dimenticandolo possiamo dimenticare, dimenticare aliena ma occasionalmente fa bene. La consapevolezza è in parte la conoscenza dell'oggettività, perderla non sempre è un male.
In “il quinto malumore” incolpi la fretta di essere la causa della solitudine della persona cui il protagonista del brano si rivolge. Pensi sia così grave la colpa di essere frettolosi?
La fretta non è una colpa, tant'è che a me personalmente spesso aiuta tantissimo. Come la calma, anche la fretta è una sfaccettatura e un esigenza dell'attività umana, tuttavia non si può a mio avviso demonizzarla. Chi ha fretta e chi fa le cose con un apparente fretta se la sa gestire va benissimo, ed è molto meno pericolosa di una lentezza camuffata dalla calma. Io ad esempio quando guido in città, lo faccio sempre in maniera molto energica, ma posso permettermelo poichè sono molto bravo; la mia è una fretta che va a braccetto con la praticità, e funziona.
“Spavaldo” è tra i brani più ermetici che abbia mai letto, me ne son fatto una mia idea ma vorrei che mi raccontassi tu di cosa parla veramente.
Parla della leggerezza con la quale moltissime persone vivono la loro vita. Mi considero una persona estremamente ordinaria, ma non superficiale. Mi occorrono pochissime cose per stare bene, ma da me stesso pretendo sempre il massimo e quasi sempre lo ottengo. "Spavaldo" è una breve ballata che tenta di illuminare e riflettere ciò che noi a mente facciamo senza rendercene conto. È tuttavia importante non dimenticare che, tutti i brani di "Senza eredità" sono stati scritti molti anni fa, in un mondo diverso da quello odierno. Il mio linguaggio generalmente è critico e con un velato alone polemizzante su qualsiasi argomento, ma oggi sarebbe molto più critico di quello che in realtà si ascolta in questo disco.
“Le nere geometrie paterne”: l’intro “Cominciò in un silenzio tombale il ricamo della vita mia” è forse una parodia all’inizio del vangelo di Giovanni “in principio era il verbo”?
Assolutamente no. Da convinto non credente non so assolutamente cosa sia il Vangelo secondo Giovanni, quindi e di conseguenza non potrei prendere spunto dallo stesso.
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