Lo scorso otto marzo siamo andati al concerto di Micah P. Hinson al Cinema Zenith di Perugia e ci abbiamo lasciato un pezzetto di cuore. Ve lo raccontiamo nell'articolo.
Foto di Riccardo Ruspi
Assistere a un concerto di Micah P. Hinson significa assistere a un funerale. Di quelli catartici, tribali, in cui si canta con le lacrime agli occhi e le braccia rivolte verso il cielo. Significa ammirare un uomo mentre scava una fossa fischiettando, il ritmo di lavoro scandito da chitarra, banjo, batteria e una voce profonda quanto questa tomba immaginaria, per poi gettare al suo interno il suo passato: vecchi ricordi, vecchie convinzioni, vecchie storie e parti di sé delle quali non vuole più sopportare il peso.
Morte e rinascita non sono concetti nuovi per Hinson, anzi: possiamo considerarle due parti fondamentali della sua vita e della sua carriera. Che si sia trattato di dipendenze, di un grave infortunio alla schiena che l’ha costretto a letto per mesi, della perdita temporanea dell’uso delle braccia dopo un incidente stradale o del divorzio, il celebre troubadour texano di origini Chickasaw, salito al successo con l’acclamato “Micah P. Hinson and the Gospel of Progress” nel 2004 e che da allora vanta undici album di successo, sa bene che cosa vuol dire fare i conti con l’abisso.
Tuttavia, non si può pensare di andare avanti senza prima dire addio: ecco perché "I Lie to You" (2022), l’ultimo album di Hinson e l’oggetto di questo tour, firmato Ponderosa Music Records e prodotto da Alessandro "Asso" Stefana (sul palco con lui insieme al batterista Paolo Mongardi), è una raccolta di undici brani scritti negli ultimi 25 anni e mai pubblicati prima. Registrato in soli cinque giorni in uno studio in Irpinia, invitato da Vinicio Capossela dopo la sua partecipazione allo Sponz Fest 2022 e in compagnia di Raffaele Tiseo agli archi, Zeno De Rossi alla batteria e Greg Cohen al contrabbasso, attraverso "I Lie to You" il cantautore texano si congeda dai tormenti che lo hanno accompagnato fin dall’adolescenza e che lo stavano portando ad appendere la chitarra al chiodo. Li raccoglie in un solo luogo e ce li regala. Non gli servono più.
Il concerto, tenutosi lo scorso otto marzo al Cinema Zenith di Perugia in collaborazione con il T-Trane Record Store, aperto dal trio folk locale Espada prima e da canti nativi americani mescolati a motivi elettronici poi, si apre con "Wasted Days & Wasted Nights", e basta il suo primo accordo a rapire l’intero pubblico, che cade in un silenzio immediato, senza neanche l’ombra di un cellulare. È seguita da "Ignore the days" e "Carelessly", tutti pezzi di "I Lie to You", uno più suggestivo dell'altro. L’atmosfera riflette quella dei brani dell’ultimo disco; è essenziale, eppure solenne: le mura scure del cinema, il suo soffitto appuntito e il fumo artificiale (mescolato a quello della sigaretta elettronica di Micah), contribuiscono all’idea di essere di fronte a una sacra sepoltura, parte di un rito collettivo. Sul palco ci sono solamente Hinson, Stefana e Mongardi. Una chitarra stretta al petto, quella di Hinson; Asso alterna tastiera, chitarra elettrica, banjo, slide guitar e armonica. Mongardi accompagna con le sue percussioni discretissime, pronte a crescere nei pezzi più movimentati e coinvolgenti e a rimanere un soffice tappeto per quelli più emotivamente intensi.
C’è qualcosa in Hinson che si muove più velocemente delle sue canzoni; qualcosa di vivo e incontrollabile, che lo porta ad agitare gambe, ginocchia e spalle come una buffa marionetta. Dopo ogni pezzo si inchina, toglie il cappello. Mostra due trecce che gli arrivano quasi fino alle scapole. Tra un brano e l’altro parla del Texas, della sua città Abilene, di folli teorie complottiste che non riesce a credere esistano, dei commie outfits (vestiti da comunista, NdA) che ha comprato perché troppo stufo di pensare a come vestirsi e contribuire al capitalismo dell’abbigliamento e che, in modo del tutto casuale, sono identici a quelli del batterista Paolo Mongardi, mai incontrato prima del tour (tuta da lavoro blu scuro, sneakers bianche. L’unica cosa diversa è il cappello: quello di Micah è un fedora nero con una piuma; quello di Paolo è un cappellino con visiera e una super P maiuscola cucita al centro). Di quando lavorava contemporaneamente in una pizzeria e un videonoleggio, o portava i figli in chiesa, non perché gli piacesse, ma per fare il bravo cittadino. Ogni tre parole ci mette un fucking, un shit o un mothefucker; fa ridere la platea ironizzando su tutto, anche sull'impossibile. Anche sul suo dolore.
“Non mi piacevano le canzoni (di "Micah P. Hinson and The Musicians of the Apocalypse", NdA), non mi piaceva scriverle. Tantomeno la vita. Odiavo dover vivere. Poi, improvvisamente, è cambiato tutto. E io ho iniziato a scrivere solamente del presente e del futuro, perché ho scoperto che scrivevo soltanto del passato, e nel passato non c’è niente di buono,” racconta al pubblico prima di suonare I Don’t Know God, il primo brano figlio di questa nuova consapevolezza dopo una carriera spesa a guardarsi indietro. È stata la pandemia a cambiare il suo modo di pensare.
I brani che il trio esegue sono quasi tutti di "I Lie to You": la nostalgica "The Days of my Youth"; l’evocativa "500 Miles"; "Walking on Eggshells", con il suo testo violento mescolato a un sound allegro e country; e poi ancora la splendida cover di John Denver "Please, Daddy (Don’t get drunk this Christmas)" e "People", il racconto di una vita dove prima si vedevano le persone aiutarsi tra loro e ora uccidersi a vicenda. Davanti a sé Micah ha messo una sedia-leggio dove appoggiare il raccoglitore che contiene i suoi testi, ma non sempre è sufficiente a ricordarli ("Che poi sono le mie canzoni, cazzo, dovrei ricordamele, sono anche semplici", ride dopo essersi fermato a metà di un brano).
Durante l’esecuzione della struggente ballad folk "What Does it Matter Now?", Hinson ha un lapsus impercettibile ed enorme allo stesso tempo: invece di cantare "the day you fell out of love with me", il giorno in cui hai smesso di amarmi, sostituisce out con in, rendendo opposto il significato: il giorno in cui ti sei innamorata di me. Lo dice, si accorge; sembra congelarsi per un attimo, ma continua a cantare, facendo finta di nulla, con quella voce che ti riverbera fino a dentro le ossa.
Gli unici pezzi eseguiti non contenuti nell’ultimo album sono: "Seems almost impossible" ("Micah P. Hinson and the Opera Circuit", 2006), "Beneath the Rose" ("Micah P. Hinson and the Gospel of Progress", 2004), "Tell me it ain’t so" ("Micah P. Hinson and the Red Empire Orchestra", 2008), "On the way home – To Abilene", "There's only one name" ("Micah P. Hinson and the Nothing", 2014) e "Diggin’ A Grave" ("Micah P. Hinson and the Opera Circuit", 2006), il loro numero inferiore a ricordare quanto l'artista non abbia più intenzione di trascinare con sé il suo passato.
Parlando di riti, addii e funerali, è proprio "Diggin’ A Grave" il pezzo con cui Micah P. Hinson decide di concludere il concerto. Sto scavando una fossa alla luce della Luna, canta sul ritmo folk-gitano di uno dei suoi brani più famosi, tenendo il tempo sbattendo il tallone a terra da vero hillbilly rivoluzionario quale è. Se ai tempi di "Micah P. Hinson and The Opera Circuit", dove il pezzo è contenuto, forse avrebbe voluto finirci lui stesso in quella fossa, ora è solo un mezzo per essere finalmente libero. L'esibizione è giunta alla fine. Micah ha rubato un pezzetto del cuore di tutti; ha ricoperto la tomba di terra. Si toglie un’ultima volta il cappello, ringrazia e se ne va.
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