di Edoardo Previti e Michela Ginestri
Maniviola è il nome d’arte di Irene Badaloni, giovane cantautrice indie pop che con il suo EP d’esordio, "Non diresti mai!", ha dato voce a emozioni e situazioni che non aveva mai sentito raccontare da altri: “Ci sono stati momenti in cui mi sembrava di essere l’unica persona sulla faccia della Terra a vivere certe situazioni” – ci racconta nell'intervista – “ma non riuscivo a trovare musica che mi desse conforto. Così ho deciso di scriverla io.”
Era una mattina d'autunno di qualche tempo fa quando l'abbiamo scoperta un po' per caso su Spotify con la sua "Sottozero". Nel tempo ha confermato il suo talento, e questo primo EP in studio ne è la prova. Ha una visione musicale chiara e distintiva, gioca con le parole con naturalezza e, attraverso il suo storytelling, riesce a creare un legame diretto e autentico con chi l'ascolta. Non è da tutti avere una visione di sè come artista e della musica a tutto tondo.
Tra delicate ballate e spunti più sarcastici, Maniviola si muove in equilibrio tra la necessità di raccontarsi e il desiderio di creare connessioni. Scrive per necessità, per raccontare storie che hanno bisogno di esistere, è una narratrice di emozioni e di esperienze condivise. E il suo viaggio musicale è appena iniziato.

Ciao Irene, benvenuta su IndieVision! Come stai e come ti senti ad un mese di distanza dall'uscita del tuo EP?
Bene dai, tutto bene. È passato effettivamente un mese e me ne rendo conto in questo momento. Sono contenta di come sta andando, è andata anche meglio delle mie aspettative, quindi tutto bene!
Ottimo! Per il nostro pubblico che potrebbe non conoscerti, perché hai scelto "Maniviola" come nome d'arte?
È molto meno poetico di quanto possa sembrare. Il motivo è che ho una pessima circolazione nelle mani. Quando ho ansia o sono in situazioni di difficoltà, le mie mani diventano fisicamente viola per via delle vene visibili. Quando andavo a scuola, i miei amici mi prendevano in giro per questa cosa. Inizialmente, "Maniviola" è diventato il mio nome utente su Twitter, e poi è diventato il mio nome d'arte.
Beh, almeno ha un significato dietro. Hai scelto il nome giusto, considerando la tua esperienza con l'ansia e le mani viola.
Sì, c'è un senso, anche se può sembrare un po' strano. Succede anche prima dei concerti. Quindi finisco per raccontare questa storia spesso alle persone che vengono ai concerti.
Nell'annunciare l’uscita del tuo EP, hai detto di aver scritto queste canzoni perché avevi bisogno che esistessero, per poterle ascoltare. Di cosa sentivi il bisogno, cosa volevi prendere e dare attraverso queste canzoni?
Bella domanda, grazie! È difficile da spiegare, ma quello che ho detto è davvero ciò che sentivo. Ci sono stati momenti in cui mi sembrava di essere l’unica persona sulla faccia della Terra a vivere certe situazioni. Quando mi trovo in difficoltà, di solito cerco conforto nella musica, nelle canzoni in cui posso ritrovarmi, che mi fanno sentire meno sola. Ma quello che stavo vivendo era così specifico che non riuscivo a trovare musica che mi desse quel conforto. Così ho deciso di scriverla io, perché ne sentivo la necessità. E il motivo per cui poi ho scelto di pubblicare queste canzoni è che le sentivo incredibilmente fedeli a ciò che avevo vissuto. Ho pensato: se c’è qualcuno che ha provato esattamente quello che ho provato io, mi piacerebbe essere per loro quello che altra musica non è riuscita a essere per me. E alla fine questa cosa è successa davvero: dopo l’uscita dell’EP, alcune persone mi hanno scritto dicendo: "Oh mio Dio, questa canzone descrive esattamente quello che ho vissuto anch’io!" Quello è stato il momento più bello, la gioia più grande. Quindi sì, è andata proprio così.
È una cosa bellissima: con le tue canzoni hai trovato uno spazio per descrivere emozioni e situazioni che non avevi mai sentito raccontare da altri, e allo stesso tempo stai aiutando chi vive le stesse esperienze. Gli altri artisti non riuscivano a raccontare quello che provavi, così l’hai fatto tu.
Esatto, esatto! Ed è una cosa davvero bella.
Alla realizzazione di Tu non diresti mai ha partecipato anche Edo Nocco, che insieme a te ha trovato il sound perfetto per i tuoi brani. Quanto è importante per te trovare il "vestito sonoro" giusto per le tue canzoni? E come nascono i tuoi pezzi?
È una parte fondamentale del processo! Ti rispondo in due parti, visto che hai fatto due domande. La nascita delle canzoni per me è sempre un momento molto intimo: le scrivo tutte da sola, in cameretta, con la mia chitarra e l’app delle note sul telefono. Nascono sempre in acustico, in modo molto semplice e diretto.
Poi arriva la fase successiva: mando i brani a Edo, oppure glieli suono direttamente quando vado in studio. Insieme cerchiamo di capire quale sia la veste sonora giusta per ogni pezzo. È un processo piuttosto complesso, perché le canzoni nascono separatamente e in una forma molto essenziale. Solo dopo decidiamo che strada prendere per ognuna, aggiungendo elementi e costruendo il suono attorno alla melodia originale. È un lavoro divertente ma anche impegnativo: a volte tutto funziona subito, altre volte qualcosa non va e dobbiamo mettere da parte un pezzo per qualche giorno prima di riprenderlo con una prospettiva nuova. Ma è proprio questo il bello: attraverso la produzione, ogni canzone acquista una propria personalità. Partono tutte molto spoglie, ma solo una volta prodotte e lavorate trovano davvero la loro identità.
Durante la realizzazione dell'ep, quali ascolti ti hanno accompagnata? Non dico influenzato direttamente, ma cosa stavi ascoltando in quel periodo mentre scrivevi queste canzoni?
Sì, è un mix che, almeno alle mie orecchie, è molto evidente quando ascolto l’EP. Però non so se lo sia anche per chi lo ascolta, questo non posso dirlo io.
In quel periodo ho ascoltato un mix di artisti appartenenti a due grandi filoni musicali. Da un lato, il cantautorato italiano, sia contemporaneo che un po' irriverente: ho ascoltato tanto Willie Peyote, tanto Fulminacci. Poi anche cantautori di qualche anno fa, ma non troppo distanti nel tempo, come Max Gazzè, Daniele Silvestri e in parte anche Simone Cristicchi.
Dall’altro lato, c’è il cantautorato classico: tantissimo Edoardo Bennato, tantissimo Fabrizio De André. Questa è la parte più legata alla tradizione italiana. A livello internazionale, invece, ho ascoltato molto Phoebe Bridgers, Alfie Templeman e Dodie. Diciamo che quel folk un po' acustico, malinconico e introspettivo mi ha accompagnata parecchio. Quindi, secondo me, nell’EP convivono proprio queste due anime: il cantautorato italiano e il folk acustico internazionale.
Paolo è un brano ironico che descrive molto bene quelle persone pronte a tutto pur di ottenere un po’ di fama sui social. Volevo chiederti: cosa ne pensi dell’uso che si fa della musica su piattaforme come TikTok e Instagram?
È una domanda complessa per me, perché in realtà io sono qui a parlare con te e sono riuscita a pubblicare il mio EP proprio grazie ai social. Ho iniziato a condividere la mia musica online e a usarli come strumento di promozione, anche se in un modo un po’ diverso rispetto alle strategie più comuni.
Di solito non pubblico le versioni prodotte e finite delle mie canzoni, ma condivido soprattutto il mio processo di scrittura. Carico molte versioni acustiche dei miei brani e mostro il dietro le quinte della mia musica. I social, secondo me, possono essere un grande strumento. Ho conosciuto tantissimi artisti che stimo e ammiro proprio attraverso queste piattaforme. Inoltre, credo abbiano reso l’industria musicale un po’ più accessibile e democratica: prima l’accesso era molto più limitato, mentre ora ci sono più possibilità per chi vuole farsi conoscere. Questo, ovviamente, non significa che sia facile o immediato per tutti, ma sicuramente offre più opportunità.
Detto questo, il rischio è quello di concentrarsi troppo sugli aspetti più appariscenti della creazione musicale una volta che si entra nel meccanismo dei social. Se ci si lascia trascinare troppo, si rischia di perdere di vista il vero motivo per cui si fa musica, ovvero l’espressione autentica di sé. Quindi sì, i social possono essere strumenti meravigliosi, ma bisogna usarli con attenzione e consapevolezza.
Il disco si apre con Sala d’aspetto, un brano in cui canti di una stanza chiusa a chiave in cui rifugiarsi. Se dovessi davvero trovarti in questa sala d’aspetto, quali oggetti porteresti con te?
Oh! Domanda molto interessante. In realtà, la sala d’aspetto di cui parlo è un riferimento aperto a Waiting Room di Phoebe Bridgers.
Il concetto è estremamente metaforico ed estremamente triste: è quella condizione in cui ti trovi in una situazione negativa, sai che alla lunga non ti porterà da nessuna parte, dovrebbe essere solo una fase di transizione… eppure sei disposto a restarci per sempre. È questo il senso del titolo del brano d’apertura. Se dovessi scegliere cosa portare con me in questa sala d’aspetto… probabilmente uno psicologo o una psicologa, perché sarebbe molto utile. Poi un diario, per scriverci dentro tutti i miei deliri. Insomma, se devo restare in un luogo del genere, almeno che serva a qualcosa! Ma in generale, no, non è un posto piacevole in cui stare.
L’EP si chiude con La strada di casa, che personalmente è il mio brano preferito. Come è nato questo pezzo e come mai hai scelto di metterlo in chiusura dell’EP?
Grazie! Allora, La strada di casa è nata a pezzi. La prima cosa che ho scritto è stata la seconda strofa, che tra l’altro è anche la mia parte preferita del pezzo, perché racchiude il senso dell’EP nel suo insieme. Come ti dicevo prima, avevo bisogno che una canzone raccontasse quello che stavo vivendo, e credo che il significato di tutto il progetto sia proprio in questo brano. È stata una scrittura molto frammentata nel tempo, perché la situazione che raccontavo si è protratta a lungo. Ho scritto vari pezzi della canzone in momenti diversi, e solo dopo un po’ li ho messi insieme. L’ultima parte che ho scritto è stato il bridge. La prima cosa che ho fatto, una volta terminata, è stata suonarla alla mia coinquilina, che conosceva già tutta la storia dietro il brano… e niente, abbiamo pianto insieme. È stato un momento molto intenso, ma anche simpatico a ripensarci! Ho deciso di metterla alla fine dell’EP perché mi sembrava che il progetto avesse senso così: si apre con Sala d’aspetto e si chiude con La strada di casa. Non c’è una vera risoluzione, ma è come se il significato del disco fosse racchiuso tra quei due titoli. E mi piaceva anche l’idea che il primo brano si chiamasse Sala d’aspetto, un posto da cui partire, e l’ultimo La strada di casa, un posto in cui tornare. Mi sembrava la chiusura perfetta.
Hai partecipato all’iniziativa Dedica una canzone, un format molto carino perché permette sia agli artisti di farsi conoscere che di creare un momento speciale per chi riceve la dedica. Pensando al contrario, c’è una canzone che ti piacerebbe ricevere in dedica? E chi vorresti che la cantasse?
Eh, bella domanda! Ti dico la verità, è una cosa un po’ strana per me. Mi piace tantissimo dedicare canzoni e cantarle per le persone, ma non sono sicura che mi piacerebbe riceverne una in dedica. Per alcune persone può essere un momento molto emozionante, ma per altre può diventare quasi imbarazzante… e io rientro decisamente nella seconda categoria!
Me lo sono chiesta più volte: mi piacerebbe davvero che qualcuno mi cantasse una canzone al telefono? E la risposta, purtroppo, è no. Credo che mi metterebbe troppo in contatto con le mie emozioni, e di solito preferisco tenerle un po’ più distanti. Mi piace vedere gli altri emozionarsi, vivere indirettamente quel legame tra chi dedica e chi riceve la canzone, ma se succedesse a me penso che mi sentirei a disagio.
Forse l’unico modo in cui riuscirei a reggere la cosa sarebbe se fosse una canzone completamente scherzosa, qualcosa che non prenda sul serio il momento. Tipo una canzone di Elio e le Storie Tese, una di quelle assurde e divertenti! Ecco, in quel caso probabilmente la prenderei meglio.
Ok, ultima domanda prima di salutarci! Facciamo un piccolo gioco: se avessi un giradischi che può far girare all’infinito un solo disco, quale sarebbe e perché?
Uh, questa sì che è una domanda importante! Ma sai che, in un certo senso, mi è già successa una cosa del genere? Ho una macchina molto vecchia, con una radio che funziona a malapena, e più di una volta mi è capitato che un CD rimanesse incastrato per sempre, costringendomi ad ascoltarlo all’infinito.
L’unica volta in cui non mi sono mai stancata del disco in questione è stata con Punisher di Phoebe Bridgers. È un album super triste, ma le canzoni sono talmente belle che non ho mai sentito il bisogno di cambiarle. Se dovessi scegliere un solo disco da ascoltare per tutta la vita, probabilmente sarebbe quello.
Questa cosa mi ha fatto subito pensare a How I Met Your Mother, quando rimane incastrato il disco dei The Proclaimers e parte I’m Gonna Be (500 Miles) ogni volta che salgono in macchina!
Ahaha esatto! Solo che nel mio caso non mi ha mai stancata, almeno per ora! Tra l’altro, avevo parlato di questa cosa in un video un sacco di tempo fa, e la gente nei commenti continuava a chiedermi: "Ma com’è possibile che tu abbia una macchina così vecchia?" E io: "Eh ragazzi, ho 22 anni, questa è la macchina che c’è, che vi devo dire?"
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