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La narrativa queer nelle serie TV: storie straordinarie di eroi imperfetti

Eccoci al secondo appuntamento del PrideVision 2024! 

Le storie sono importanti. Ci modellano senza che noi ce ne rendiamo conto e influenzano la nostra vita. Chi controlla che storie vengono raccontate e chi può raccontarle detiene un potere immenso.


Storicamente questo potere è stato nelle mani di un’elite formata da uomini bianchi, eterosessuali e cisgender. Per far sì che anche altre voci potessero raccontarsi ci sono voluti anni di porte chiuse in faccia e aspre rivendicazioni. La rappresentazione queer nei media è per fortuna sempre maggiore, ma non è sempre stato così. 


Ciò che voglio raccontarvi oggi è la storia di come scrittorɜ queer hanno lottato per avere la possibilità di portare sullo schermo storie LGBTQIA+ autentiche, attraverso un'analisi di alcune delle serie tv più iconiche degli ultimi decenni e dei personaggi che le popolano. 


La struttura di come si scrive un racconto non è cambiata dai tempi di Aristotele: c'è un inizio, un mezzo e una fine. Tre atti. Il primo, l'introduzione dei personaggi. Il secondo, la lotta contro lo status quo. Il terzo, la risoluzione del conflitto, che esso sia un lieto fine, o una conclusione tragica. Tre atti. Altrettante serie tv. Mettetevi comodɜ. La storia inizia così… 



ATTO I: BAD QUEER

È il 24 febbraio 1999. Il canale televisivo britannico Channel 4 trasmette la prima puntata di una nuova serie televisiva, scritta e diretta dal gallese Russel T. Davies. Si intitola “Queer as Folk” e ha subito ottimi ascolti, anche se va in onda a tarda notte. 

Tutto bellissimo, no? Macché. 


Già, perché “Queer as Folk” ha un problema, un grosso problema: è una delle prime serie con protagonisti omosessuali e la prima a mostrare esplicitamente scene di sesso tra due uomini. I protagonisti di “Queer as Folk” sono Vince e Stuart, due uomini omosessuali che frequentano i locali del Gay Village, il quartiere LGBTQIA+ di Manchester, posti che al regista e scrittore Russel T. Davies, anch’egli omosessuale, era capitato di frequentare.

Vince e Stuart si divertono, sbagliano, sono occasionalmente delle pessime persone, fanno (parecchio) sesso, si innamorano e cercano di vivere la loro vita nel migliore dei modi. E che c'è di strano, dirà qualcuno, sono dei personaggi, magari ben scritti, ma con tutte le caratteristiche di dei normali protagonisti. 

Ed è questo il punto. Non sono né omosessuali penitenti che soffrono per i loro peccati, né macchiette al servizio di donne eterosessuali, né casti e perfetti ragazzini di sedici anni che prendono a pugni gli omofobi.


All’epoca della sua messa in onda “Queer as Folk” fu molto criticato sia dentro che fuori dalla comunità LGBTQIA+: dai conservatori inglesi perché omofobi, ma anche all’interno della comunità si pensava che la rappresentazione di personaggi queer complessi e non sempre “buoni” avrebbe potuto incitare ulteriore omofobia. 

La studiosa queer Maria San Filippo utilizza il termine “Bad Queer” (“Cattivo Queer”) per indicare questo tipo di rappresentazione di personaggi facenti parte della comunità LGBTQIA+.


Vince e Stuart sono dei personaggi imperfetti, con un sacco di dubbi e debolezze. È forse per questo che, almeno personalmente, li sento così vicini alla mia esperienza e al mio vissuto.

Siamo chiari, riconosco il valore di serie come “Heartstopper”, in cui i personaggi queer sono quasi degli archetipi di bontà. Per secoli, la felicità e il lieto fine sono stati preclusi a personaggi della comunità LGBTQIA+; quindi può essere catartico e rivoluzionario vederla mostrata così chiaramente in una serie di successo.

Detto questo, un posto ci sarà sempre nel mio cuore per quelle storie in cui i personaggi inciampano e barcollano vagabondando per il mondo. Come me. Come tutti noi.



ATTO II: LILY E LANA 

Quando Netflix cancellò “Sense8” non ci potevo credere. Era estate e vivevo in appartamento condiviso a Torino. Non ero in casa. Ero invece in un aula studio gigante del centro, quelle con le sedie avvitate ai tavoli che cigolano ad ogni tua mossa. La notizia me la diede un mio amico mentre ci prendavamo un caffè, come se non fosse niente di speciale, come se fosse una notizia qualunque. Ho preso le mie cose e sono tornato a casa.


Sense8 è una serie uscita su Netflix nel 2015 nata dalla mente di Lily e Lana Wachowski, due registe transgender salite alla ribalta a cavallo degli anni duemila con la trilogia di Matrix, serie di film super blockbuster che già all’epoca aveva fatto breccia nella comunità LGBTQIA+ per i suoi temi incentrati sulla lotta al potere e la scoperta del vero se, ma la cui lettura trans è stata esplicitata dalle autrici negli scorsi anni. Uno degli indizi lasciateci dalle due registe nella loro opera, per esempio, è il fatto che la scoperta del mondo reale avviene tramite una pillola rossa, simile alle pillole di estrogeni in commercio negli anni novanta. 

Sense8 parla di 8 persone unite da una connessione telepatica e spirituale che permette loro di vedersi anche se si trovano dalla parte opposta del globo e entrare nel corpo di ognuno. Tra loro c’è Nomi, una hacker trans di San Francisco, Lito, un divo delle telenovelas messicane segretamente gay e Sun, una donna d’affari di giorno e una campionessa di kick-boxing clandestino di notte.


Sense8 parla di molti argomenti, ma soprattutto racconta la comunità: quanto sia più difficile affrontare le paure e le angosce se si è soli. 

La maggior parte delle persone queer sa cosa si prova a vivere in un mondo non accogliente, in una società in cui è molto chiaro che non si è benvenute. Ma le più fortunate sanno anche cosa significa trovare una comunità che ti accolga per come sei. Spiegare quanto questo sia impagabile è fuori dalla mia portata di scrittore. 

Ma Sense8 racconta anche che la lotta è sempre condivisa e collettiva, ma anche personale. 

Sun, il personaggio per me più iconico di Sense8, lottatrice sul ring e nella vita, in uno dei momenti più tragici dell’intera serie, riassume così:


Questa è la vita: paura, rabbia, desiderio, amore. Io prendo tutto ciò che provo, tutto ciò che è importante per me e metto tutto questo nel mio pugno. E per questo combatto.



ATTO III: CAPTAIN JACK 

“Doctor Who” è una serie televisiva britannica tra le più longeve della storia, andando in onda dal 1963 fino ad oggi, anche se con una pausa di sedici anni tra il 1989 e il 2005. Per mettere la cosa in prospettiva, la prima puntata di “Doctor Who” raggiunse le televisioni britanniche il giorno dopo l’assassinio di J. F. Kennedy: praticamente preistoria. Doctor Who è un cult assoluto per chiunque ami la fantascienza. La serie segue le gesta del Dottore, un millenario alieno con due cuori che grazie al TARDIS, una macchina del tempo a forma di cabina del telefono della polizia (sì negli anni sessanta erano dappertutto in Gran Bretagna), viaggia nel tempo e nello spazio, spesso insieme a un paio di umani per tenergli compagnia e aiutarlo nelle sue avventure.


Dopo sedici anni di assenza dagli schermi, nel 2005 “Doctor Who” ritorna in vita con alla guida, come principale sceneggiatore e showrunner, Russell T. Davies (ve lo ricordate? Quello di “Queer as Folk”!). Nel nono episodio di questa nuova prima serie (Il bambino vuoto), ambientato in una Londra nel bel mezzo dei bombardamenti nazisti, viene presentato un nuovo personaggio: il Capitano Jack Harkness. Anch’egli è un viaggiatore nel tempo, ma non sempre con delle buone intenzioni come il Dottore: Jack è un truffatore venuto dal cinquantunesimo secolo, pieno di carisma e bello come il sole. 


Nei primi 15 minuti di episodio Jack flirta sia con un soldato di Sua Maestà, sia con Rose, la compagna di avventure del Dottore per questa serie. E continuerà a flirtare e baciare uomini, donne, persone non-binarie e alieni per buona parte della sua permanenza nella serie. Il Capitano Jack Harkness è il primo personaggio queer della storia di Doctor Who, ma non sarà l’unico. Come personaggi ricorrenti, nelle stagioni successive saranno presentate Jenny e Madame Vestra, una coppia lesbica formata da una domestica vittoriana e una guerriera siluriana (una specie di rettili umanoidi che abitavano la Terra nel mesozoico).


Jack Harkness è il primo esempio di rappresentazione queer che ho incontrato nella mia vita ed è rimasto con me per tutti questi anni. Sono così legato a questo personaggio per vari motivi, ma più di tutti è perché mi dà speranza. 

Jack non fa mai coming-out per tutta la durata della serie. Il cinquantunesimo secolo, da dove proviene, è un universo in cui gli umani e gli alieni convivono su miliardi di mondi e dove il costrutto sociale del genere è stato completamente superato. Jack vive la sua vita senza pressioni, sensi di colpa e omofobia internalizzata rispetto al suo orientamento sessuale. È libero di amare chi vuole. Questa è la speranza, il lieto fine della nostra storia, che proprio qui termina: il Capitano Jack Harkness è il nostro futuro, che gli omofobi e i bigotti lo vogliano o no. 


Per concludere, finito il nostro racconto, possiamo solo sperare di vedere sempre più rappresentazione queer, non solo nelle serie tv, ma nell'arte tutta. Abbiamo fatto molti passi avanti, certo, ma la lotta non è ancora finita. 

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