Il Maestrale è un collettivo di Bari che fonde sonorità mediterranee con musica pop rock ed elettropop. Hanno recentemente pubblicato la raccolta “φωνές” (fonés dal greco, in italiano “voci”), composta dai due singoli “Medea” ed “Euridice”. Due brani potenti, tanto ancestrali quanto moderni, ispirati da mito e tragedia, ma che riescono ad affondare anche nella realtà odierna.
Ce li siamo fatti raccontare - insieme alla loro storia - nell'intervista qui sotto.
Ciao! Presentatevi ai lettori e alle lettrici di IndieVision.
Ciao! Noi siamo Il Maestrale, siamo un collettivo di Bari e ci piace fondere sonorità mediterranee con la musica pop rock ed elettropop. Siamo un progetto che negli ultimi due anni ha cercato molto un proprio sviluppo e uno spazio nel mondo musicale, suonando in giro per l’Italia e all’estero.
Ci piace pensare che questo sia un progetto che non si limita ad essere una vera e propria band: difatti, ci definiamo collettivo. La nostra creazione musicale è alimentata dalla passione per l'espressione artistica in tutte le sue forme. La produzione artistica ha molteplici sfaccettature, che includono la scrittura di testi, il cinema, il teatro e la poesia. La nostra visione dell'arte è affine a quella di un artista poliedrico come Cocteau, che assegna un'unica etichetta all'arte.
Simona Valenzano: Personalmente, mi considero più una poetessa che una cantautrice. La poesia però per me è una forma d'arte che può manifestarsi attraverso il cinema, la danza, la musica, il disegno e innumerevoli altre espressioni artistiche. Riteniamo, infatti, che l'arte in tutte le sue forme debba essere coltivata all'interno di un contesto collettivo. Pertanto, collaboriamo con artisti come Alice Palumbo, Antonio Gentile, Maria Gesualdo, Giorgio Schino e altri, che ci consentono di esplorare l'introspezione da diverse prospettive e di arricchire la nostra creatività. Vogliamo esplorare l’arte in tutte le sue forme.
Alessandra Valenzano: Per questo diciamo sempre che il nostro progetto vede materialmente salire sul palco noi musicisti, ma che in realtà il Maestrale è composto da tutte queste persone che lavorano con noi. Per me, per esempio, chi si occupa della fotografia o dell’aspetto immaginativo video, in tal caso Alice Palumbo, è Maestrale tanto quanto me che canto queste storie. Quelle stesse storie passano dalla penna dei nostri autori, tra cui c’è Maria, e dalla regia di Alice. Siamo una macchina che intende raccontare storie e lasciare un’impronta, la propria, nel mondo.
Come nasce la vostra collaborazione e come definireste il vostro stile così particolare?
Simona Valenzano: Il Maestrale nasce ad agosto del 2021, in un periodo alquanto difficile per tutti noi. Chi si trovava nella stasi, chi in turbini emotivi, chi ancora sentiva l’esigenza di suonare ma non ne aveva modo. Ci credevamo tutti. È nato da un’esigenza enorme. L’obiettivo iniziale non era fare il “Mediterraneo Postmoderno”, era di fare semplicemente musica. Tuttavia, quando si è legati dalla musica, si tende a passare le serate un po’ così. Se ne parla, la si ascolta, fino a che non ci siamo trovati a comporre quella musica che ci stava legando. Di base credo che ciò che pubblichiamo abbia un genere preciso per il semplice fatto che siamo noi a farla, senza alcuna pretesa di inserirci in un movimento o di rappresentarlo; preferiamo di gran lunga crearcelo.
Alessandra Valenzano: facciamo ciò che ci piace e di cui vogliamo raccontare, senza rinchiuderci nelle etichette. La nostra armonia di stile è data dal fatto che io, Simona e Nico, nello scrivere canzoni, seppure le necessarie e meravigliose sfumature di diversità, abbiamo un’idea comune di gusto e ascolti che ci piacciono e di cui amiamo disquisire.
Tra settembre e ottobre è uscita la raccolta “φωνές” (fonés dal greco, in italiano “voci”), che comprende i due singoli “Medea” ed “Euridice”. Come mai avete scelto di ispirarvi proprio a queste due figure, e di dedicare i due brani a voci di donne fondamentali nel mito e nella tragedia classica?
Nicholas Palmieri: Il mito è solo un pretesto, lo è sempre stato. Un pretesto per parlare dell’uomo, delle sue passioni e dei suoi sentimenti, che prescindono dal contesto storico. “Medea” è stato un pretesto per parlare delle passioni che conducono alla distruzione di sé; “Euridice” è stato un pretesto per parlare del nostro rapporto con la morte. Un cordone ombelicale lungo millenni di anni lega la tradizione classica alla nostra cultura e alla nostra terra, sono le nostre radici culturali e noi vogliamo valorizzarle.
Pensate che i miti possano trovare aderenza e riscontro nella nostra vita di tutti i giorni, consegnarci ancora degli insegnamenti? Se sì, quali sono quelli che possiamo trovare nei due brani?
Nicholas Palmieri: Seppur possano sembrare voci lontane, quelle del mito e della tragedia classica secondo noi rappresentano l’espressione massima della cultura mediterranea che sopravvive fortemente nel sangue e nella terra da dove proveniamo, un filo rosso che perdura da quasi tre millenni, che noi abbiamo voluto trattare in una sorta di confronto bifronte e alterno: uno sguardo al passato e uno sguardo al futuro.
Può il mito ancora essere attuale? A nostro avviso sì, può essere attuale e contemporaneo. Il mito rinasce e si rinnova, come rinascono i costumi, sono i sentimenti umani a non mutare nei secoli, assumono solamente nuove tinte nel confronto con il background culturale del tempo.
I greci indossavano vesti leggere, mangiavano cibi semplici e bevono vino denso, e in ogni piccola città che costruiscono c’è sempre un teatro rivolto verso il mare; cose che non cambiano mai in ogni piccola metafisica città mediterranea (vita lenta, cibo genuino, un festival estivo), di cui vorremmo cantare le storie, i misteri, i valori. Cosa porta il vento di maestrale? Storie lontane che diventano la nostra storia, voci antiche che provengono da domani.
Alessandra Valenzano: Parlare della tragedia di Medea, nonostante inorridisca, solleva dei punti di contatto con la nostra umanità. Medea è un personaggio profondamente complesso, inizialmente motivato da buone intenzioni, ma che gradualmente cede alle oscure emozioni dell'ira e della rabbia. Medea, nella tragedia greca, è innamorata di Giasone, il quale, dopo aver approfittato di lei e delle sue qualità di maga nella conquista del Vello d’Oro, la conduce con sé in terra straniera come sua sposa, per poi deliberatamente abbandonarla per un'altra donna e per bramosia di potere. Premettendo che lei per lui - pensa che scema - aveva pure ucciso suo fratello e suo padre, costituendo questi un ostacolo al loro amore. Capiamo, pertanto, che in risposta a tale abbandono, nel petto della ex regina della Colchide si scatena un'ira feroce che la spinge a compiere la più estrema atrocità: l'omicidio dei propri figli per vendicarsi su Giasone. Dalla potente cecità dell’eros si passa, quindi, alla incontenibilità del sentimento di vendetta. Medea non sa contenersi, non sa razionalizzare il sentimento. Chi avrà letto la tragedia originale si ricorderà del complesso contrasto tra θυμός, (dal greco, tumòs, sentimento, ciò che risiede nel petto) e βουλεύματα, (boulèmata, i buoni propositi, l’intelletto, la razionalità). Lei incanala le emozioni negative in azioni distruttive e, soprattutto, autodistruttive. Medea distrugge la sua famiglia e la sua stessa anima per vendicarsi, perdendo così il suo io “umano” e - indovina, sorpresa! - proprio ciò che temeva di perdere. Medea è contemporaneamente vittima e carnefice di un processo di alienazione e separazione dicotomica da coloro che un tempo amava e da ciò che era inizialmente destinata a essere. Per me, Medea rappresenta una sfida alla tradizionale rappresentazione del bene e del male. Nonostante i suoi orribili delitti, evoca nell’interprete una certa compassione per la sua sofferenza personale e il suo isolamento. Questo personaggio offre una riflessione profonda sulla complessità umana e sul potere delle emozioni negative nel plasmare il destino individuale. Questo è un destino che ci riunisce e ci caratterizza in quanto esseri umani. Nel 2023 la grande scoperta è che siamo ancora vittime delle passioni. Nessun avanzamento tecnologico che tenga può superare la nostra inettitudine e incorreggibilità. Questa è una nostra traduzione poco letterale e ben certo più moderna, ma era il nostro modo personale di affermare come ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si sia sentito ben più vicino ad un anti eroe che al buono della storia. Del resto, come noi de Il Maestrale, ma prima di noi e più di noi, vi sono stati molteplici adattamenti e adattatori della tragedia greca di Medea, tra cui lo stesso Seneca, Pasolini, Christa Wolf e infiniti altri sono stati affascinati, nonostante il turpe e il male che la caratterizzano, da questa figura di donna illuminata e accecata dalla sua stessa passione. Così come, dall’altra parte, milioni di persone sono sedotti dalla intrinseca similarità di altri personaggi dicotomici, come ad esempio i Jedi e Sith di Star Wars: due facce della stessa medaglia, le passioni umane, gli uni nell’ accezione nobile e controllata, gli altri in quella degenerativa. Anche qui, come in Medea, si ripete il contrasto tra Tumós e Bouléumata. L’uomo è terribilmente affascinato dal male.
Il mito di Euridice, invece, offre uno sguardo profondo sulla complessità dell'amore e della paura della perdita: intriso di simbolismo e profondità, questo mito conduce da millenni in un labirinto di emozioni tipicamente antropiche, concedendoci di indagare come uomini la nostra resistenza innata verso la perdita e il costante confronto con il mistero dell'aldilà.
Euridice rappresenta la bellezza e la fragilità della vita umana, mentre il suo viaggio nell'Ade incarna l'oscurità dell'esistenza oltre il velo della morte.
Nella nostra canzone, il mito conduce in una danza macabra a tre, dove la morte si erge come terza presenza misteriosa ed inquietante: la missione disperata di Orfeo nell’Ade, è riassumibile nella richiesta rivolta ad Euridice di amarlo a propria volta nel modo in cui la morte aveva scelto di abbracciarla. In maniera infinita, totale: “Amami come la morte”.
Il “per sempre” agognato nelle fiabe si fa morte nella realtà, rendendo l’happy aver after una condizione momentanea e fugace, limitata nel tempo e destinata a finire. Non rimane che la perdita e la sensazione che qualcosa, qualcuno, si sia portato via chi amiamo, spazzando sogni e speranze.
Tale è la condizione imposta dagli dèi agli uomini e agli esseri viventi tutti.
E anche se così non fosse, essi concederebbero, come ad Orfeo, il privilegio di poter sconfiggere questa terza entità, solo non voltandoci mai indietro: sappiamo che l’eroe, tuttavia, sarà sempre destinato a voltarsi verso di lei, rappresentando la paura universale di perdere ciò che amiamo e di non riuscire a trattenere l'oggetto del nostro affetto.
L'atto di guardare indietro, di fatto, consiste in una seconda perdita di Euridice, simboleggiando la nostra incapacità di resistere alla tentazione di scrutare nell'oscurità, nell'ignoto, nella morte stessa. E, come tale, è una rappresentazione eloquente della nostra insaziabile curiosità umana e della nostra incapacità di accettare la natura effimera della vita e dell'amore: ciò che ne deriva è la nostra inesorabile ricerca di conoscenza e controllo di un fenomeno naturale, ignoto e, di fatto, incontrollabile. Cerchiamo di trovare “qualcosa che a scuola non possono insegnare”: quindi no, rispondendo alla domanda, non riusciamo a trovare degli insegnamenti in particolare, se non che l’uomo di millenni fa rassomigli ancora nei desideri, difetti, paure e irrisoluzioni a noi uomini di oggi.
Il maestrale è uno dei venti più intensi, le cui raffiche possono portare a mari in tempesta. Il vostro sound, in particolare quello di questi ultimi due singoli, ricorda molto l’irruenza di questo vento, la cui forza è tanto spaventosa quanto antica e affascinante. C’è qualcosa che volete comunicare con il suono, oltre che con le parole?
Simona Valenzano: Il Maestrale, con la sua forza impetuosa e la capacità di cambiare rapidamente le condizioni meteorologiche, presenta una straordinaria somiglianza con la musica che noi cerchiamo di creare. Come il vento del Maestrale può sconvolgere e trasformare il paesaggio costiero, così anche le nostre canzoni cercano umilmente di catturare l'aspetto tempestoso delle emozioni umane. Il maestrale rompe le scatole: una frase tipica da noi in Puglia, in estate, è “oggi non si può andare amare, c’è Il Maestrale”. Così anche noi intendiamo rompere le scatole.
Il vento del Maestrale è un simbolo di potenza, di natura indomita, e ciò richiama alla mente la ricerca di un suono unico e potente nelle nostre canzoni. Così come il Maestrale può disturbare la quiete estiva, le nostre canzoni cercano di disturbare in senso positivo, di smuovere qualcosa nei cuori di chi le ascolta, anche non per forza positivo. Inoltre, la somiglianza con la natura impetuosa del Maestrale e le radici culturali profonde che esso richiama ci fanno sentire ancorati al nostro territorio, alla sua autenticità e alla sua bellezza cruda. Questo è un elemento fondamentale della nostra musica, che cerca di riflettere l'identità del Sud e le sue passioni. In definitiva, il Maestrale è più di un semplice vento per noi; è un simbolo di potenza e bellezza naturale, ed è un richiamo all'autenticità e alla forza emotiva che cerchiamo di trasmettere attraverso la nostra musica.
Alessandra Valenzano: per certi versi, un po’ quel contrasto tra bene e male che emerge in Medea, emerge anche nel nostro nome. Il vento può portare ristoro, ma può anche distruggere. È evento naturale ed incontrollabile. Noi vogliamo parlare della verità secondo la nostra personale accezione, siamo cantautori. Poco importa se crea o distrugge, per noi l’importante è parlare al e dell’ascoltatore.
Se in brani come “Xanadu” il vostro sound ancestrale incontra anche l’elettronica, in “Medea” ed “Euridice” avete scelto di affidarvi piuttosto a voce e strumenti acustici. Qual è il motivo di questa scelta?
Nicholas Palmieri: Abbiamo sempre cercato di fare dell’uso delle voci e del loro intreccio uno dei nostri marchi di fabbrica. Questo lo abbiamo sempre sperimentato ma posso comprendere che esternamente si possa cogliere questo elemento solo ora, essendo state pubblicate davvero poche cose della nostra produzione inedita. In effetti, rispetto alle prime uscite, mai come in questi due brani Simona è salita in cattedra inscenando un vero e proprio coro, nonostante sia quasi sempre e solo lei a cantare le parti corali, con le sue “numerose” voci. Merito delle numerose sovraincisioni, a volte anche improvvisate, da lei eseguite in studio. Per Alessandra parla la sua voce, c’è poco da aggiungere. È un vettore trainante della nostra musica. Nonostante l’utilizzo dell’elettronica, anche in Xanadu è possibile ritrovare un’ossatura prevalentemente acustica. In queste due uscite abbiamo cercato di mantenere la natura acustica che sta all’origine della composizione, al fine di esaltare ancor più l’aspetto intimo ma anche caldo e mediterraneo dei brani.
Alessandra Valenzano: seppure tendiamo a colorare molti dei nostri pezzi con l’elettronica, essendo cantautori, questi sovente nascono semplicemente come una bozza voce e chitarra o voce e pianoforte. In certi casi, come è avvenuto con Medea ed Euridice, per noi ha senso lasciare che la canzone navighi in un universo più, come dire, “semplice”. La semplicità non è mai semplicismo, ma per noi è grande slancio di forza.
Il legame con le vostre radici, con la vostra terra, sembra essere fondamentali per voi. Raccontateci che ruolo hanno nella vostra ispirazione creativa, e se a volte possono anche avere dei lati negativi.
Simona Valenzano: La nostra musica è fortemente influenzata dalle radici, che sono il nostro legame con la cultura, la storia e le tradizioni del Sud. Nel processo creativo, utilizziamo il dialetto e elementi culturali per creare un suono unico che riflette la nostra identità.
Però, attenzione, da parte nostra vi è un importante e volutissimo "errore di pronuncia", una volontà di fare nostra la tradizionale cultura musicale pugliese. Il nostro obiettivo non è interpretare la musica tradizionale in modo tradizionale, ma piuttosto estenderla in una prospettiva globale. Non facciamo la taranta, per dire. Siamo cantautori moderni che vivono, semplicemente, in una cornice che è quella pugliese e non possono esimersi dal fondersi con essa o, quantomeno, raccontarla perché è quello che viviamo ogni giorno: e un cantautore, si sa, scrive perlopiù di quello che sente nell’esperienza.
Viviamo in un'epoca in cui le influenze internazionali sono inevitabili, e personalmente, non posso fare a meno di ispirarmi allo sviluppo musicale del Nord Europa. Tra i nomi che mi influenzano ci sono artisti come Björk, Aphex Twin, Four Tet e molti altri. Questo è ciò che ci permette di creare un suono unico che fonde le radici mediterranee, inevitabili ed innate come un linguaggio o una flessione dialettale, con l'innovazione contemporanea, cui guardiamo con ammirazione e volontà.
Se doveste scegliere una parola nel vostro dialetto che possa rappresentare voi e la vostra musica, quale sarebbe?
Alessandra Valenzano: “La iosa”. In dialetto significa rumore, disordine, baccano. Ci piace fare la iosa.
Per ora avete all’attivo cinque brani: “Medea” ed “Euridice”, appunto, poi “Genesi”, “Xanadu” e “La cosa più naturale”. C’è nell’aria l’idea di un progetto discografico?
Simona Valenzano: Senz’altro andando avanti con il progetto sono nate delle idee che possano indurre ad una maggiore organicità. Di base, dopo qualche mese in cui abbiamo scritto tutti molto, ci siamo resi conto di un legame tematico tra le nostre canzoni. Perciò direi, un disco è nei nostri pensieri senz’altro, ma prima di poter parlare con sicurezza e dar vita ad un progetto così ambizioso, occorre mettere le radici e lavorarci su.
Alessandra Valenzano: ci piace fare le cose con lentezza, piano piano. Al momento abbiamo scelto di non fare date live proprio perché vogliamo cambiare pelle e fare la muta senza avere fretta di vedere cosa esce dal bozzolo. Anche se nell’ombra, stiamo lavorando a qualcosa di vero per noi. Ci stiamo divertendo, dando spazio all’immaginazione con tutti i ragazzi del collettivo e, in questo contesto, un disco è nei nostri pensieri, come dice Simona.
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