Decido di cliccare play appena inquadro il gate F51 di Charles de Gaulle, mi scelgo una sedia vista pista e mi concedo una pausa dopo una settimana lavorativa piuttosto intensa. Mi viene in mente “Musica per aeroporti” di Dragogna, penso a come l’album che sto per ascoltare si preannuncia il contrario delle canzoni moleste da aeroporto, delle pubblicità invasive e degli annunci di ultima chiamata gracchianti come una radiolina di cent’anni fa. Un album che attendevo da tempo: “L’albero delle noci” (Island records), di un Brunori neopapà reduce da un discreto successo allo scorso Sanremo e che ha finalmente iniziato a fare i conti con la fase dell’età adulta per antonomasia, quella da genitore.
Sono sicuro che più di una persona passandomi davanti abbia seriamente considerato di segnalarmi alla sicurezza dell’aeroporto: lo sguardo perso nel vuoto, un mezzo sorriso triste, un corpo perfettamente immobile per i 33 minuti di ascolto turbato solo da qualche fugace sguardo allo schermo per leggere i titoli delle tracce: il ritratto di un perfetto terrorista wannabe pronto a proiettare sul mondo i suoi dubbi esistenziali. E invece mi stava solo passando la vita davanti con la colonna sonora migliore che potessi desiderare.
L’album si apre con una sentenza piuttosto eloquente, “Alla fine dei conti non è nemmeno l’amore il punto della questione”: sono fottuto. L’arpeggio delle chitarre di “Per non perdere noi”, poco dopo avermi riportato con la mente alle stesse santissime dita che hanno composto “Prima di andare via”, setta il mood fin dall’inizio dell’album su delle corde molto familiari a Brunori, quelle dell’amore, tema del quale tornerà a cantare quasi in ogni traccia dell’album, da prospettive sempre diverse. Il bello degli artisti lontani dal rumore dei social e dalle esagerate tendenze alla condivisione dei dettagli di vita personali è che per scoprire cosa succede nelle loro vite ci sono solo le loro canzoni e una sana dose di interpretazione, deduzione e spirito d’inventiva da parte di chi ascolta. Ormai Dario ci ha abituati a centellinare in brani come questo scorci di vita personale e di coppia che a vederli ci pare di sbirciare in modo indiscreto tra pagine che non ci appartengono, sperando di trovarne non tanto qualcosa di nuovo, quanto di rassicurante. Un bacio prima di partire, una ragione per tornare. L’amore che serve a non perdersi è fatto della stessa sostanza di un romanzo epico, stoico e con in mente fissa la meta, che sia Itaca o Beatrice non importa. Se ti distrai è finita, l’amore è solo per gli eroi.
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Avevo ascoltato “L’albero delle noci” la prima volta qualche giorno prima, all’alba di un grigio mercoledì mitteleuropeo, col sole ancora nascosto sotto l’orizzonte e una naturale malinconia dettata dalle tonalità di blu che il mattino irradiava. Mi aveva lasciato a bocca aperta ed occhi lucidi, tutto l’amore che veniva cantato non me l’aspettavo, non sapevo gestirlo, spiegarlo. Risentirla ora mi fa lo stesso effetto: la title track che ha incantato l’Ariston vincendo il Premio Sergio Bardotti è un capolavoro, ciò che ogni bambino avrebbe bisogno di sentirsi dire dal proprio padre per venir su pronto a ciò che gli aspetta in questo mondo feroce. Una lettera a cuore aperto, di confessioni scomode e di promesse ambiziose per un padre. “Cantare senza parole, senza mentire, per paura di farti soffrire”: io non lo so cosa significhi avere un figlio, crescerlo senza cadere e fargli male, abituarsi ad una felicità che si allontana dalla propria, non posso sapere cosa voglia dire “unire i puntini tra la mia bocca e la verità” ma questo pezzo, in poco meno di quattro minuti, mi ha fatto capire che forse devo delle scuse a qualcuno. Mi asciugo le lacrime e mi preparo al prossimo pezzo.
“Ghigliottina”, coi venti rivoluzionari francesi in poppa, permette a Dario di togliersi qualche sassolino dalle scarpe sulle aspettative verso i cantautori oggigiorno. La ghigliottina social e morale ha la lama affilata e i nostri pensieri imparano a muoversi sempre più veloci per starne alla larga, e così in questo mondo belligerante fatto di luoghi comuni e insensatezze varie, un qualcosa da raccontare bisogna pure trovarlo. È un mestiere complicato quello del cantautore oggi, contraddittorio, che ti lascia i palmi sempre sporchi del sangue di qualcosa o qualcuno che abbiamo – o ci ha – offeso. Un pezzo divertente, autoironico (sotto il superficiale strato finto moralista brunoriano) e che allarga i confini abituali di ciò che consideriamo normale, dentro e fuori dalla musica. Amore, in questo pezzo, non ce n’è.
Arriva quindi il turno di “La vita com’è”, già parte della colonna sonora del film “Il più bel secolo della mia vita”, e ci mette nel giro di qualche strofa uno spietato specchio davanti a chiederci com’è che viviamo questa vita che passiamo così tanto tempo a cantare, dissacrare e fuggire. Spesso non ci basta l’amore che riceviamo, l’età che dimostriamo e la vita che ci scorre tra le dita, eppure eccoci qua, ancora in piedi, a fare i conti con la differenza, se c’è, tra la vita reale e la vita cellulare. Pessoa diceva “Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi: un pozzo che fissa il Cielo” ecco la vita com’è.
“Pomeriggi catastrofici”, le conseguenze di un pranzo in famiglia di quelli seri (sotto il Po): un pezzo registrato con il solo cellulare da un take piano e voce impossibile da replicare e che pertanto è rimasto così com’è nel disco. Un pezzo autentico e dal sapore agrodolce dettato dall’ambivalenza del ritornello ("se stai con la famiglia, niente ti può accader / se stai sempre in famiglia, niente mai ti accadrà") e dal tenore rustico e de noantri sulla scia dei vari Nino Manfredi e Lando Fiorini che hanno costellato la canzone popolare italiana.
Un clamoroso piano-sequenza musicale fa di “Il morso di Tyson” un pezzo quasi cinematografico, di una energia e un crescendo degni di uno scontro di box. Il morso di Tyson come l’ultimo atto di una storia d’amore forse finita, forse mai iniziata, chissà, ma le cui conseguenze continuano a proiettarsi in ogni coppia casualmente scrutata in strada che vive attimi senza fine comuni a tutti gli innamorati, del presente, del passato o del futuro.
Dopo una breve parentesi molto sentita dedicata alla luna (che curiosamente non sarà l’ultima dell’album) in “Fin’ara luna”, in cui scopriamo tra l’altro per la prima volta come suona la voce di Dario nel dialetto presumibilmente di San Fili, arriviamo al mio pezzo preferito dell’album, in cui Sinigallia ha probabilmente spinto sull’acceleratore come non mai per far si che “Più acqua che fuoco” suonasse come niente di Brunori avesse mai suonato fino ad allora. Schitarrate vigorose e uno stile piuttosto punk mi fanno tornare al primo disco de I Cani, non solo per quel “sono in difficoltà con questa società” sul finale che mi sembra un vero e proprio omaggio al celeberrimo “e per questo non mi riconosco in questa società, per me contano i dischi, i bagni nel mare, l’umanità” di “Post Punk”. Il tema della canzone attinge in pieno all’immaginario di Brunori fatto di ricordi estivi roventi, giudizi tranchant su problemi politici di altri tempi e un rapporto conflittuale, difficile da spiegare, con l’amore. Un pezzo splendidamente vivo che ci avvicina alla fine dell’album con un tallone che segna il tempo come se avessimo una batteria davanti.
“Luna nera” usa il nostro satellite solo come pretesto per riflettere su cosa significhi sentirsi soli, non importa se come genitori dai figli ormai cresciuti, o soli come un automobilista in cerca di divertimento a notte fonda su qualche viale di periferia: l’atmosfera dettata dalla combo piano e sax rende questo brano di una dolcezza speciale. Ed ecco che proprio in ultimo arrivare “Guardia giurata”, il pezzo che ci riporta a qualche minuto prima dell’attimo della fine del mondo del nostro neopapà, iconicamente rappresentata da una coda del brano con la voce persa dall’emozione, confusa e commossa.
Un disco levigato da uno dei maestri del cantautorato contemporanei, Riccardo Sinigallia, che fin dall’annuncio di questa onirica collaborazione ci aveva fatto sperare in un disco fenomenale, che unisse due anime essenziali della musica italiana in un lavoro delicato e irruento allo stesso tempo, con l’arsura lirica di Riccardo unita a quella agrodolce di Dario su dei tappeti sonori unici come solo quelli di Sinigallia possono essere.
L’imbarco per il mio volo è iniziato da un pezzo, la fila è quasi esaurita, devo andare, il mio albero delle noci mi aspetta da qualche parte fuori da queste vetrate.
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