Se settembre riporta con sé la ripresa della nostra vita di routine, la fine di questi mesi di caldo in cui ci siamo sentiti tutti più simpatici postando sul social di fiducia la nostra “Estate Italiana”, il mese del ritorno sui banchi di scuola per me, da qualche anno, significa solo due cose che mi riempiono il cuore di gioia: torna il Campionato e, soprattutto, tornano ad uscire i Dischi. Se nel caso del primo i tempi saranno più che forsennati per colpa della follia qatariota, ennesima porcheria della vincente accoppiata FIFA-milioni, non si può dire di meno delle nuove uscite: così su due piedi, mentre digito queste parole ho in mente almeno cinque/sei progetti che verranno pubblicati in questo settembre succosissimo; sotto sotto ho un po’ paura, l’ultima volta che ho avuto così tante novità attesissime ho preso più che altro grandi delusioni, ma si parla di qualche anno fa, e credo di aver imparato a riporre un pochino meglio la mia fiducia.
Le dinamiche dell’industria musicale degli ultimi anni hanno tirato dritto verso una sola direzione: pensando a Spotify, cercando di non cadere nella solita retorica boomer del premere play, sono due le cose che mi saltano in mente. Tra le pubblicità (di cui sono fruitore poiché da sempre, orgogliosamente, possiedo la versione free dell’app) che mi bombardano ogni 2-3 tracce, da qualche mese (forse si può parlare anche di anni) ce n’è una nella quale viene descritto un software (di proprietà di Spotify, ndr) con il quale, e cito, “puoi creare una canzone in pochi minuti”. Di per sé potrebbe anche sembrare poco più di una buona strategia commerciale, ma temo proprio di non essere l’unico ad aver associato questo (e, a dire la verità altre dinamiche della piattaforma verde) alle repellenti dichiarazioni del CEO, appunto, di Spotify risalenti ad un paio di anni fa con le quali Daniel Ek spiegava semplicemente e tranquillamente agli artisti che non si può andare avanti così, che una pubblicazione ogni tre o quattro anni non è sufficiente per soddisfare i propri fan, e di conseguenza per monetizzare sufficientemente dagli streaming.
È proprio per questo che considero il disco di cui sto per parlare un atto rivoluzionario, una rivendicazione di libertà, tanto cara, e forse anche tanto rara, dopo quello che le urne ci hanno detto qualche giorno fa.
Per lavorare a “Karma Clima”, già dal titolo fortemente iconico è semplice capire il concept del tutto, la band piemontese ha scelto di vivere in full immersion l’essenza della sua regione, scrivendo e registrando queste nove canzoni impiegando un totale di circa tre mesi in tre diverse residenze artistiche nella provincia di Cuneo: la Cooperativa di Comunità Viso a Viso di Ostana, il Birrificio agricolo Baladin di Piozzo e la Borgata Paraloup di Rittana.
"La forza di una band è essere ugualmente parte di un team e partecipare alla creazione di qualcosa di unico dove ognuno ricopre un ruolo. È la somma dei pensieri di ognuno e in un certo senso è quasi una sorta di gruppo sociale. Per questo vedere i valori di rete, cooperazione e collettività come garanti di riqualifica di un posto che altrimenti sarebbe abbandonato, è un po' come la mission che ci si dà per non lasciar spegnere la scintilla di ispirazione, ciò che ci ha portato a Karma Clima. È creazione, è collaborazione, è la spinta a impegnarsi in prima persona facendo quello che sappiamo fare meglio: musica."
Il concetto di collettività, il voler mettere mano ad ogni processo nella creazione di un disco, la scelta di ritirarsi e vivere in questo modo la scrittura di un nuovo lavoro sono dapprima qualcosa di delizioso per le nostre orecchie, e successivamente un grido forte e chiaro contro la musica fotocopia, contro i numeri e gli algoritmi e contro le parole di Daniel Ek. Il risultato, e lo dico senza alcuna paura di pesare in questo modo le mie parole, sono nove pezzi stratosferici, qualcosa che in Italia non mi capitava di sentire da tempo, nove pezzi in cui la band capitanata da Cristiano Godano ribalta il concetto di canzone, ci gioca e lo gira a suo piacimento, con tutto quello che ne deriva, ovvero paradossalmente l'album sia più pop che meno pop dei Marlene Kuntz.
"Karma Clima", nel cercare, attraverso la sensibilizzazione sui temi del cambiamento climatico, di rendere almeno leggermente più respirabile l’aria del nostro pianeta, sicuramente rende più respirabile la nostra scena musicale e mai, mai, mai dovremmo smettere di ringraziare questi artisti per questo e per quello che questi 33 anni di carriera sono stati.
Introdotta da un ritmo quasi tribale, accompagnato dal sommesso frastuono dei campanacci, “La Fuga” ha il compito di aprire “Karma Clima”. In un crescendo che evade dal concetto di forma canzone (e già aprire l’album con un pezzo del genere, che è stato anche il primo estratto, è una precisissima dichiarazione di intenti a proposito di quanto sopra), gli ingressi progressivi di basso, synth e chitarre si troncano al culmine dell’esplosione.
"E io mi devo condannare o mi devo perdonare? Cosa c'entro? E se c'entro in che misura sono colpevole?"
“Tutto tace”, all’opposto, su un groove felpato che i fan non potranno che associare a “Nuotando nell’Aria”, è un racconto del nostro pianeta che se ne va. Non ci vedo malinconia, ma nemmeno ci vedo, comprensibilmente, gioia. È una canzone fatalista, un gioiello arricchito da un coro quasi gospel che è più che una piacevole sorpresa.
"Scavo ancora un po' in fondo al nero: Letargo e pace"
Anche “Lacrima” mi compra molto facilmente: poche cose mi piacciono come le batterie che si mischiano ai synth e alle drum machine, se poi ci mettiamo un basso che si intreccia veramente bene con le chitarre, il pezzo è fatto, complice anche un ritornello molto orecchiabile. Cristiano è, anche sorprendentemente, a suo agio anche in questa dimensione, lo testimoniano le linee vocali ed il testo.
"C'è un'emozione in me Che mi fa entrare in connessione Con qualche cosa Che mi appare come superiore E come sempre Mi pervade il solito stupore Poi penso al clima e a noi E piange piange piange il cuore"
È il turno di “Bastasse”. “Karma Clima” non ha brani riempitivi, questa ballata è qui per dimostrare questo. Il sound dell’esplosione finale è una masterclass di Taketo Gohara, che ha curato le produzioni del disco, mentre la fine del pezzo è a dir poco geniale.
"Il mondo brucia, e noi?"
Siamo a metà (e, spoiler: che metà!). “Laica preghiera” è forse la gemma più grande di questo album, la voce di Cristiano si fonde con quella di Elisa, che, in una veste di spoken quasi inedita, non può che emozionare.
"Qui su queste alture C'è il regno della transizione E scorgere un altrove Ti allontana dalle brutture Ma tanta è l'afflizione Che devi raccontare"
Visto che siamo a metà, mi prendo una pausa anche io: quanto diavolo sarebbe bello vedere la cantautrice friulana muoversi di più verso territori musicali come questo e staccarsi un pochino dal compitino che le sentiamo spesso fare? Risulta comprensibile che le lodi sperticate per canzoni poco più (ma forse neanche) che normali come quella dello scorso Sanremo non siano un grande stimolo, però dai!
Parentesi noiosone chiusa, torniamo a parlare di bellezza, che qui ce n’è veramente tanta. “Acqua e fuoco”, su di un beat che è quasi un mantra, accompagna incessantemente un testo molto criptico con un significato molto chiaro che si intreccia con quello di “Tutto tace” e, perché no, anche col titolo dell’album: abbiamo avuto la sensazione di poter dominare tutto, compreso il territorio in cui viviamo, ma non è così, e le prime conseguenze si stanno iniziando a far vedere, senza bisogno che sia io a citarle qui.
"Di fermare il tempo Non c'è stato tempo mai"
Il brano in cui il sound si porta nell’emisfero più lontano da quello marlenico è “Scusami”, un dialogo padre-figlio (sono l’unico ad aver pensato alle due tracce “Padre e Figlio” e “Figlio e Padre” del disco solista di Cristiano di un paio di anni fa?), nel quale il genitore si rivolge al giovane scusandosi, a nome della sua intera generazione che non ha saputo fare nulla per arginare il terribile avvenire del nostro mondo. Per me, venticinquenne, il concept di questa canzone è qualcosa di incredibile, straziante, ma mozzafiato.
"E se tornassi qui Chissà se ce la farei A dire “scusami” E a darti il cuore per Inebriarti con la mia gioia"
“Vita su Marte”, il secondo (ed ultimo) singolo estratto dall’album, oltre che una provocazione, e pure bella grossa, è una chiave di lettura di un certo tipo sul “menefreghismo” di chi sta a capo di politica, economia e finanza: se fosse al vaglio una possibilità di trasferimento su Marte, verosimilmente il posto non ci sarebbe per tutti, e a chi spetterebbe questo privilegio? Probabilmente ci sentiamo più in pace con noi stessi ad esaltare Chiara Ferragni per aver sfilato con un abito in alluminio riciclato o per avere abbandonato l’uso della plastica nelle sue collection, salvo poi emettere per un’ora e mezza di viaggio verso Ibiza in jet privato l’equivalente di quanto è emesso da due persone in un anno intero per tutti i loro trasporti.
"Chi ce la farà e chi non ce la farà? Canta che ti passa e nel caso poi si vedrà."
Il compito di chiudere questo disco, tutto meno che leggero (e per fortuna!), spetta a “L’aria era l’anima”, un brano spoken word delicatissimo nel quale ritorna il dialogo generazionale, portato all’estremo da un coro di nipoti che parlano ai relativi nonni con un semplicissimo significato: non andrà tutto bene, ed è ora di prenderne atto.
"Nonno, cosa fai? Perché non parli più? Sembri malinconico. Come mai? Perché guardi laggiù? Non si può andare là. C'è l'acqua, non puoi andare là!"
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