Ogni anno da settant'anni, per una intera settimana, milioni di telespettatori si imbarcano in una mistica esperienza televisiva a bordo del fido divano di casa per addentrarsi nel quartier generale dei Boomer italiani: il Festival di Sanremo (aka Festival dei Boomer).
Perché ci siamo assuefatti a questa sadica tradizione annuale da più di 70 anni senza mai restare delusi né sorpresi dallo squallido alone di putrefazione che lo circonda? Come è mai possibile che questo siparietto ormai scondito di novità degne di nota – che non siano i centimetri extra dei baffi di Vessicchio – sia ancora considerato il punto di riferimento della musica italiana?
A mio parere, la risposta è che la musica viene ancora vissuta da gran parte degli italiani come un momento singolare e fuori dall’ordinario, per il quale vada investita una manciata di occasioni all’anno che iniziano sulla Rai a capodanno, passano per la Rai a Sanremo e finiscono sulla Rai il Primo Maggio. Di conseguenza, affidando alla Rai il monopolio della conoscenza musicale – televisiva nonché totale, ricordandoci che siamo in Italia - è difficile rimanere delusi da prodotti praticamente senza una vera concorrenza. Il monopolio, in qualsiasi ambito, è una brutta bestia: porta a farsi piacere persino i regionali Trenitalia, figurarsi Sanremo.
Prodotti, poi, talmente anacronistici che, ogni qualvolta una minima variazione avvenga al loro interno, queste generano scandali e insurrezioni e girotondi in piazza. E per variazioni intendo non solo delle coraggiose novità, sostanziali e inedite, all’interno dello show, come portare la satira politica sul palco (caso Crozza nel 2013 o Celentano nel 2012). No: per chi fruisce del mondo della musica tramite la Rai, per essere novità e destare scalpore basta anche solo esibirsi sul palco con qualche tatuaggio visibile o, peggio ancora, vestirsi in modo particolarmente eccentrico. Sto parlando del caso Achille Lauro, che quest’anno si sarà sentito in un enorme déjà-vu visto il polverone suscitato dalle sue scelte d’abbigliamento.
Insomma, incarnare il ruolo dell’innovatore rivoluzionario a Sanremo è facile come rubare una caramella ad un bambino dato che al pubblico tipicamente reazionario di una prima serata su Rai 1 non andrebbe giù nulla che esuli dall’ordinaria e insipida salsa di luoghi comuni e buonismo che affoga ogni traccia di modernità del mondo che ci circonda. La crepa spazio temporale in cui Sanremo si svolge è immune da ogni velleità innovativa.
Appurato quindi che il prodotto Sanremo è destinato a rimanere anno dopo anno una brutta copia di se stesso e che al suo pubblico ciò sta più che bene, leggi del mercato ben più influenti di me ci dicono che il prodotto Sanremo non cambierà, perché squadra che vince non si cambia, se poi la squadra è una sola e gioca da sola contro una porta vuota, vien da se che continuerà a vincere.
Sarebbe bello poter concludere con una nota di merito per la componente meramente musicale che gravita intorno allo show: macché, forse persino XFactor riesce ad essere più meritocratico in questo. Il giudizio degli artisti è affidato ad un mix di giurie più o meno tecniche, di cui una sola si potrebbe considerare “democratica”, ovvero la componente televoto, un quarto del peso totale dei voti. Si contano infatti quattro giurie: del televoto, della sala stampa, dell’orchestra e demoscopica, che entrano in gioco in momenti predeterminati durante la kermesse. Alla prova dei fatti il campione statistico scelto dalla direzione Rai per comporre i tre quarti (quindi la maggioranza) delle giuria complessiva risulta spesso inadeguato a valorizzare reali meriti musicali (parlo in termini di innovazione, qualità musicale e dei testi); risente troppo spesso invece positivamente di preferenze dettate dalla presenza scenica o dalla nomea dell’artista di turno.
Se basta un Achille Lauro o una Elettra Lamborghini qualsiasi ad accontentare la sete di novità dello spettatore, se basta qualche triste battuta di Amadeus ad allontanare le gravi accuse di sessismo nei suoi confronti con il benestare delle conduttrici amaramente complici del maschilismo imperante in casa Rai, se bastano canzonette mediocri per partecipare e magari anche vincere, se bastano i soliti noti ad intervallare le esibizioni per allungare un brodo già insipido e fare felice il pubblico che conta, ovvero quello con età media misurata col carbonio 14, vuoi vedere che Sanremo ce lo meritiamo? Vuoi vedere che nel momento in cui non condanniamo qualcosa ne siamo indirettamente complici?
Vuoi vedere che questo Paese non è altro che la controfigura misera di un salotto Rai (e non viceversa)?
L’unico salotto che salvo, in tutto ciò, è quello targato The Jackal, i quali restano autori ad oggi degli unici contenuti a tema Sanremo di cui io goda con piacere: mai banali, spontanei, genuinamente divertenti.
Se rinunciamo alla qualità delle componenti d’intrattenimento e musicale del Festival, cosa resta allora?
I The Jackal e il resto scompare.
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