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Dietro le righe // Senontipiacefalostesso - L'Officina della Camomilla


---- Dietro le righe ----

#10 Senontipiacefalostesso - L’Officina della Camomilla


Quando ho iniziato questa rubrica, l’ho fatto con un’unica certezza: non avrei mai cercato di dare un’interpretazione ad un testo di De Leo. Ma adoro contraddirmi e gennaio è forse il momento dell’anno che più di tutti ci fa pensare tanto sulla nostra vita e, per questo, tentando di rallentare per un attimo questo momento, proverò a portarvi nell’universo di una delle canzoni più amate dell’Officina della Camomilla, attraverso una delle tante interpretazioni, del tutto personale...e se non vi piace, fa lo stesso.


“Senontipiacefalostesso”, ultima traccia dell’omonimo album, non è solo una canzone, ma una vera e propria poesia, un racconto in cui tutte le cose hanno tra di loro un legame misterioso, spesso sono unite attraverso similitudini e analogie (proprie del simbolismo, quello tipico di Baudelaire ad esempio), creando profonde corrispondenze tra oggetti e stati d’animo, come un profumo e un colore, o una macchina e le sue stelle marine.


De Leo è l’omino seduto su una panchina che guarda le persone vivere davanti a lui, è il ragazzo che disegna sul ciglio di una strada a Parigi, è quello che suona da solo in riva al mare. La sua capacità di osservazione e di introspezione è unica, lo dimostra come nel brano dipinge alcuni momenti della quotidianità di una ragazza, rendendoli magici, (“e tu ballavi senza dischi e ti aggiustavi i capelli nelle porte della metropolitana”).


“Sei leggera quando pieghi le cose, leggera come un mazzo di fiori neri”, la descrizione della ragazza e della sua vita continuano, sempre attraverso gli occhi dell’autore che continua a guardarla per tutto il tempo, quasi con amore, arrivando a farci sentire indiscreti. Istituisce così un vero gioco di corrispondenze non razionali tra forme e parole, attraverso quella che si può considerare la parola chiave delle canzoni dell’officina: l’immaginazione.

De Leo con questa poetica ci apre la finestra ad un mondo interiore i cui moti sono appunto dominati dal sogno e dai simboli.


Nella seconda parte della canzone il rapporto tra i due risulta più intimo, si conoscono, lei lo aspetta dopo essere scesa dal tram “con la colazione in mano, in un sacchetto con su scritto il mio nome, fra un miliardo di lettere”, perché forse, tra più di un miliardo di lettere, non è un caso se lei ha scelto proprio quelle.


Nonostante questo lui si interroga ancora sul perché lei non riesca ad aprirsi e a dichiararsi, o sul perché non voglia farlo, il tutto attraverso l’immagine metaforica del mare, “perché non riesci a dirmi che ti piace il mare?” Che sia lei a non volerglielo dire o lui a non riuscire ad ascoltarla?


Infine la frase più metaforica, “io ti ho sempre chiamata senza sapere il tuo nome”. Come si può chiamare una persona e dire di conoscerla senza saperne il nome? Sembrerebbe impossibile, il nome è la prima cosa che diciamo nel presentarci, è la prima cosa che ci danno i nostri genitori quando nasciamo, è il modo più convenzionale di dire: “esisti”. Ma forse, in questo caso, il nome non ha poi questa grande importanza.


Lui l’ha sempre cercata, senza sapere il suo nome. Come se, nel suo cuore, ma anche nella sua mente, quella ragazza che guardava vivere, semplicemente, da lontano, fosse la risposta a tutte le sue ricerche.

A cosa serve sapere il suo nome se puoi guardare quella persona negli occhi?

A cosa serve il resto del mondo se puoi guardare quella persona negli occhi?



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