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Immagine del redattoreSara Curioni

Il linguaggio interiore di Alessio Bondì: dentro al suono carnale ed estatico di "Runnegghiè" - RECENSIONE

La prima volta che ho ascoltato "Runnegghiè" ero su un volo Palermo-Bergamo, di ritorno da otto giorni ritagliati tra lavoro ed impegni e trascorsi tra il mare azzurrissimo e i vicoli della città rischiarati dagli ultimi stralci di estate. Così, con gli occhi ancora pieni di meraviglia ed una strana nostalgia a stringermi lo stomaco, ho premuto play al nuovo album di Alessio Bondì, uscito l'8 novembre per Maia e distribuito da Ada Music Italy. E, come in una sintonia perfetta, mentre l’aereo decollava alzandosi sopra l’Isola, le percussioni incalzanti che aprono il disco mi tenevano ancorata alla terra antica e preziosa della Sicilia, trascinandomi con sé nelle pieghe di un discorso densissimo, autentico, profondo e affascinante come un’eco lontana.


alessio bondì

È esattamente questa, in effetti, l'impressione che si ha nel percorrere le otto tracce dell'album: "Runnegghiè" è una mano che con presa sicura afferra l’ascoltatore e lo trascina con sé dentro alla vita consumata tra le strade e nelle piazze ("Tammuru"), in mezzo alla folla festante ed euforica che contempla la Santa sfilare ("Santa malatia"), tra la disperazione e le zone d'ombra dei quartieri marginali ("Cascino") e poi fuori dal caos cittadino, dove la natura riprende i suoi spazi e il vociare caotico è sostituito dal canto delle cicale ("Taddarita").


Impossibile sarebbe approcciarsi all’ultima fatica del cantautore palermitano senza sentirsi coinvolti dall’impulso vitale che la anima, così come impossibile sarebbe ascoltare questo album (il cui titolo, non a caso, è traducibile in italiano con “dovunque”) restando fermi sempre nello stesso luogo – e nello stesso tempo – mentre i suoi episodi si susseguono l’uno dopo l’altro: quella che Bondì propone ai suoi ascoltatori è un’esperienza densa e seducente, un viaggio dai tratti onirici che percorre la Sicilia da una costa all’altra gettando un ponte suggestivo tra passato e presente, tra tradizione e contemporaneità.


Non sorprende quindi che, in questo rapido affastellarsi di scene variopinte e nel tratteggiarsi di uno spazio-tempo mutevole e che molto ricorda il territorio del sogno, a prevalere nel disco sia un’ambientazione notturna: la notte è vissuta e illustrata qui in tutte le sue anime, da quella riservata e poetica che fa del buio lo scenario in cui si disvela un delicato sentimento d’amore ("Tutta a notti iu addisìu fari l’amuri a tiesta sutta rintra una grutta ‘ncutta ‘ncutta" / "Tutta la notte io desidero fare l'amore a testa in giù, dentro una grotta stretti stretti", si canta in "Taddarita"), a quella caotica ed esplosiva in cui l’aggregazione estatica della Festa raggiunge il suo momento culminante (della perdizione collettiva dicono molto i versi di "Santa malatia": "E viru tutt’a gienti strammiari / I facci inturciuniati nna fuddia / A raggia o’ cuori e l’occhi cagghiati / Risate ri minnitta a litania", ovvero "E vedo tutta la gente sragionare / Le facce deformate dalla follia / Il cuore avvelenato e gli occhi cagliati / Risate di vendetta a litania").


cover album

Così, servendosi di un corpus amplissimo di sensazioni e scenografie dettagliate, le canzoni di Bondì si fanno simili alle eleganti cartoline d’epoca che ricoprono i banchi del mercatino di Piazza Marina o, ancora, agli affascinanti scorci in bianco e nero che fotografano una Palermo dei tempi andati; diversamente dalle vedute sbiadite dal tempo, però, le scene di "Runnegghiè" sono nitide e brillanti, e di fronte ad esse l’ascoltatore non si limita a contemplarle come spettatore estraneo, ma partecipa in prima persona al grande tableau vivant che prende vita davanti e intorno a lui. È qui che risiede buona parte del talento di Bondì: nel tratteggiare con dovizia di particolari la cornice di ogni scena e popolarla di contenuto vivo e in fermento, dando vita a quadri sonori autentici ed espressivi in cui l’ascoltatore venga immerso totalmente.


Nel riuscire ad ottenere una rappresentazione tanto vivida, ha indubbiamente giocato un ruolo sostanziale lo studio profondo della tradizione musicale siciliana, a cui il cantautore si è dedicato sin dal 2022: scavando a fondo negli archivi, infatti, Bondì ha avuto accesso ad un patrimonio ricchissimo – e, ormai, in buona parte sommerso – relativo alla musica popolare dell’isola, alla tradizione vocale dei carrettieri, alle "abbanniate" e alle serenate di cui ora rimane traccia in una serie di registrazioni effettuate da etnomusicologi ed antropologi nel secondo dopoguerra. È dalla riscoperta di questa tradizione che ha preso il via il progetto parallelo Lero Lero (di cui fa parte anche Fabio Rizzo, collaboratore di lunga data del cantautore, che lo accompagna sui palchi e che ha curato la produzione di tutti i suoi LP), nell’intento di riportarla alla luce e renderla fruibile ad un nuovo pubblico rimodellando artisticamente e creativamente i materiali preesistenti.


"Quel mondo è andato perduto, naturalmente, ma noi abbiamo queste voci che ci raccontano ancora in maniera molto profonda chi siamo, da dove veniamo. Questa cosa è fondamentale per rimanere uniti, compatti, in un mondo che ci vuole sempre più spaesati, dispersi, soli. Perché non proviamo a seguirla, questa radice, e a vedere dove ci porta? Io dico che ci porta all'acqua." (da "Riprendiamoci il nostro blues!", TEDxVittoria)

Sebbene "Runnegghiè" sia un progetto cantautorale a tutti gli effetti e abbia ambizioni più legate alla personalità artistica di Bondì che alla ricerca etnomusicologica, anche nei suoi episodi è inevitabile ritrovare tracce ed influenze dell’incontro con la tradizione: lo si coglie nell'impiego della voce, nella scelta degli strumenti (oltre alla chitarra palermitana di Rizzo, al suono ancestrale e primitivo dei brani concorrono l'utilizzo del baglama saz di origine turca e le ritmiche della batteria rituale e dei tamburi a cornice), nelle ambientazioni e ispirazioni dei pezzi. Anche qui, l’atteggiamento del cantautore è quello di chi – attraverso uno studio sentito ed appassionato – si sia finalmente riappropriato di una tradizione dimenticata, riconoscendosi nelle sue manifestazioni e facendole proprie: così, la voce grezza dei carrettieri che cantavano durante i lunghi tragitti di lavoro risuona nel timbro carnale (qui, più che nei lavori precedenti) e vibrante di Bondì; i melismi e le modulazioni della voce di cui facevano sfoggio durante le gare di canto i frequentatori dei "fondaci" (le locande in cui i mercanti si fermavano per trovare ristoro) intervengono ora ad impreziosire elegantemente le tracce dell’album; l’immediatezza del dialetto serrato di contadini, fruttivendoli e salinai riacquista tutta la sua musicalità e capacità espressiva ed ammaliatrice; la magia e la sacralità del canto vengono trasportate nel contemporaneo grazie all’elettronica dei sintetizzatori che ne riverbera il potere estatico e rituale nel corso di lunghe code strumentali (di pregio assoluto è il lavoro di produzione, sempre efficace e accurato, svolto dal già citato Rizzo). Infatti, se è vero che la tradizione è un patrimonio da preservare e non perdere, vero è anche che lasciarla chiusa ed immacolata negli archivi significherebbe privarla del suo scopo originario, come lo stesso cantautore affermava in un appassionato discorso per TEDxVittoria dal titolo "Riprendiamoci il nostro blues!": e così bisogna farla rivivere, la tradizione, e continuamente plasmarla, rinnovarla, miscelarla con il presente e farla dialogare con il suono del mondo che com'è ovvio muta e si trasforma in forme sempre nuove.



Così, il risultato è un disco profondamente intriso della terra di cui racconta, e che di essa restituisce un ritratto musicale autentico e che scava all’essenza; l’immagine che emerge della Sicilia è ben lontana dai diffusi esempi folkloristici di tradizione in costume che risuonano posticci e artificiosi, così come dall’immaginario stereotipato, parziale e a tratti esotico che deriva dall’estremizzazione del trend della "vita lenta" tanto caro ad Instagram. "Vero è che le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle", scriveva Gesualdo Bufalino in "Cento Sicilie" (di cui è autore, insieme a Nunzio Zago), e in "Runnegghiè" ci sono tutte: c'è l’isola caotica ed euforica ("Satarè"), quella nostalgica e addolorata ("Vucca i l’arma"), quella vitale e passionale ("Santa Malatia", "Fiesta nivura"), quella dell’infanzia e della magia popolare (i versi di due filastrocche tradizionali concludono "Taddarita" e "Cascino", rievocando un mondo animato da credenze e saggezza rurale); e quindi quella "mite" e quella "furba" ("vi è la Sicilia babba" e vi è "una Sicilia sperta", citando ancora Bufalino), quella "pigra" e quella "frenetica", "una infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…".


Questo è, insomma, un disco inequivocabilmente caratterizzato dalla sua ambientazione geografica: da essa non può prescindere, come non può prescindere dalla lingua che lo plasma e gli dà forma. Eppure, per quanto possa sembrare una contraddizione affermarlo, sono convinta che l’ultimo album di Bondì non sia un lavoro che "solo" di Sicilia parla e che "solo" ad essa si rivolge; se così fosse, non si comprenderebbe come tracce tanto geograficamente connotate possano riuscire ad insinuarsi in modo viscerale anche nella quotidianità di chi con l’isola – e con i suoi luoghi, la sua storia, il suo linguaggio, la sua tradizione, i suoi chiaroscuri – non abbia necessariamente a che fare (lo dimostrano i palchi di tutta Europa sui quali l’artista palermitano ha presentato il suo lavoro nel corso degli anni). Piuttosto, mi sembra che – grattando poco sotto alla superficie e gettando lo sguardo al di là del ritratto autentico e bellissimo che dell'isola natale l'album offre – si possa trovare in questo lavoro un senso universale ed un germoglio ben più intrinseco: cantare in dialetto significa per Bondì scegliere di esprimersi con il suo linguaggio interiore e primigenio, così come attingere dalla tradizione e dal racconto della propria terra segnala il manifestarsi di un viscerale senso di appartenenza, il riconoscersi in un’identità comunitaria e collettiva e il sentirsi risuonare all’unisono con i suoi tratti. Quindi, nel modo di scrivere – e di cantare – di Palermo e della Sicilia, Bondì non si limita ad offrire una veduta dell’isola fine a se stessa, ma piuttosto trasmette il bisogno universale e profondo di un ritrovato legame con la propria essenza, di un amore desideroso di assimilare e far pulsare la tradizione che ci rende ciò che siamo, di una riappropriazione profonda di eredità preziosissime e rimaste in sospeso, di un riconoscersi come parte di un flusso che scorreva prima di noi e che dopo di noi continuerà a scorrere.


alessio bondì

E se questo album è paragonabile ad un viaggio, come si scriveva all'inizio, la traccia di chiusura - che dà il titolo all'opera complessiva - rappresenta il suo perfetto punto di arrivo. Nella title-track, l’io manifesta uno stato di perdizione e spaesamento, e canta: "Non vedo la luce in fondo a questa notte / Non trovo pace, mi domando se esiste / E dove ho perso la faccia, dove la mia voce? / Chi me le ha tolte?". È lui stesso, poi, a darsi una risposta: "Non ve la prendete, non ci sono / Sono dovunque, dovunque, dovunque". Così, nel ricorso al dialetto e agli echi della tradizione, si può riscontrare in definitiva la chiave per accedere ad un’essenza autentica e comunitaria, entro cui riconoscersi pienamente e attraverso la quale di nuovo disperdersi, come in un’esperienza totalizzante ed estatica: per essere "dovunque".

"Nun viru a luci in funnu a 'sta notti Nun trovu paci, m’addumannu s'iddu c'è E dunni a piersi a facci, runn’è a me vuci? Cu s’i pigghiò? 'Un vi siddiati, nun ci su’ Sunnu runnegghiè, runnegghiè, runnegghiè." (da "Runnegghiè")


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